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«La mafia, una montagna di merda»: 40 anni senza Peppino Impastato

Il 9 maggio saranno quarant’anni dall’assassinio barbaro, ad opera di criminali mafiosi, di Giuseppe (Peppino) Impastato, giornalista trentenne che stava conducendo tenaci e coraggiose denunce nei confronti di esponenti di Cosa nostra. Ai più, e soprattutto ai più giovani, la vita, i tormenti e la morte di Peppino sono noti per un film – I cento passi – che gli dedicò quasi vent’anni fa Marco Tullio Giordana. E i cento passi non sono solo una metafora: sono giusto i passi che separavano casa sua da quella di Gaetano (Tano) Badalamenti, il boss di Cinisi, l’obiettivo della testarda campagna condotta da Impastato soprattutto attraverso “Radio Aut”, una radio libera autofinanziata con l’aiuto di gruppi e gruppuscoli di sinistra.

Il primo dato: Peppino era nato e cresciuto a Cinisi (meno di un’ora d’auto a ovest di Palermo), pupillo di una famiglia di mafiosi. Il padre era stato spedito al confino durante il fascismo e continuava ad essere un mafioso; lo zio e altri parenti erano noti mafiosi; il cognato del padre era il famigerato boss Cesare Manzella, ucciso nel 1963 in un agguato a quell’epoca tradizionale: la sua Giulietta, imbottita di tritolo, era saltata in aria appena lui l’aveva messa in moto. E proprio Badalamenti gli era successo al vertice della cosca.

Peppino rompe presto i rapporti con il padre che lo caccia di casa. Lui prima fonda un giornaletto, “L’idea socialista”, poi aderisce al Psiup. La sua prima e assai significativa lotta è a fianco dei contadini espropriati per la costruzione della terza pista del nuovo aeroporto di Palermo (lo scalo venne più tardi intitolato a Falcone e Borsellino) che mafia e speculazione edilizia, con la complicità dei gruppi di potere Dc dominanti nel palermitano, avevano voluto là a Punta Raisi. È quella una zona pericolosissima, battuta dai venti, chiusa tra una montagna (dove andò a sbattere un aereo gremito di passeggeri: tutti morti) e il mare, dove s’inabissò un altro grande aereo con altre centinaia di morti schiacciati o affogati. E non sono quei due, gli unici disastrosi incidenti aerei che hanno avuto, negli anni, per teatro lo scalo di Punta Raisi. Ma questa è un’altra storia.

Nel 1976 Peppino fonda la sua radio e, attraverso di essa, denuncia insistentemente gli affari e i crimini dei mafiosi di Cinisi e della vicina Terrasini, in primo luogo del capomafia Gaetano Badalamenti (Peppino lo aveva sopranominato “Tano Seduto”) che aveva un ruolo di primo piano nei traffici internazionali della droga attraverso – eccolo daccapo – l’aeroporto di Punta Raisi. Il programma più seguito era Onda pazza a Mafiopoli, trasmissione satirica in cui Peppino sbeffeggiava mafiosi e uomini politici corrotti. Sua anche una inchiesta (l’unica inchiesta di parte: quella ufficiale condusse alla solita archiviazione) sulla strage di Alcamo Marina (sempre a ovest, più verso Trapani): due carabinieri – il giovanissimo allievo Carmine Apuzzo e l’appuntato Salvatore Falcetta – trucidati nel sonno nella casermetta. Del duplice delitto, i carabinieri accusarono cinque giovani del posto che, si scoprirà più tardi, erano stati torturati per estorcere false confessioni. Scarcerato il gruppo (ma uno di loro era morto in cella, forse ucciso), la magistratura archiviò l’inchiesta. Peppino sosteneva, invece, che il delitto era opera della mafia in collusione con l’organizzazione clandestina paramilitare “Gladio” cui aderivano, anche lì come in tutta talia, alcuni carabinieri. Ma non si sa, né si saprà mai, che cosa Impastato avesse scoperto o su che cosa basasse i sospetti, perché la sua cartella sulla strage di Alcamo Marina fu sequestrata dall’Arma nella casa di mamma Felicia poco dopo la morte del giornalista. A differenza degli altri documenti (testimonianza del fratello Giovanni), non fu più restituita. Mistero nel mistero, o chiarezza nell’evidenza?

Nel 1978 si candida alle elezioni per il Consiglio comunale di Cinisi nella lista di Democrazia proletaria. Ma non fa in tempo a conoscere l’esito del voto perché, dopo varie minacce e pesanti avvertimenti, sempre ignorati anche e proprio in campagna elettorale, viene assassinato nella notte tra l’8 e il 9 maggio. Col suo cadavere ancora caldo viene inscenato un falso suicidio: sotto il suo corpo, adagiato sui binari della ferrovia Palermo-Trapani, è posta una carica di tritolo. Orribile lo scempio del corpo di Peppino. Pochi giorni dopo, tuttavia, gli elettori di Cinisi votano ancora il suo nome eleggendolo simbolicamente in Consiglio.

Ma ecco cominciare un osceno balletto intorno ai poveri resti di Impastato. Intanto il delitto era passato quasi inosservato perché solo qualche ora dopo era stato ritrovato nella romana via Caetani il corpo senza vita del presidente della Dc, Aldo Moro. In quel clamoroso frangente figuriamoci chi pensava più a Peppino…Comunque polizia e magistratura, conoscendo le idee del giovane “gruppettaro”, parlarono per prima cosa di un attentato terroristico da lui stesso compiuto. Poi, di fronte alla pista (fasulla) fornita dall’interpretazione (sbagliata) di una lettera di Peppino, capovolsero la versione: suicidio non solo sdraiandosi sotto un treno ma con un materasso di tritolo! Indagini frettolosamente chiuse. Caso archiviato.

«Eh, no, l’hanno ammazzato e la matrice del delitto è mafiosa», gridarono subito il fratello Giovanni e la madre Felicia Bartolotta che ruppero anch’essi, e pubblicamente, con la parentela mafiosa. Nella loro battaglia Giovanni e Felicia vennero sostenuti in modo decisivo da Umberto Santino e dalla moglie Anna Puglisi, che l’anno prima avevano fondato a Palermo il “Centro siciliano di documentazione” sul terrorismo mafioso. Si dovette al Centro, nel primo anniversario della morte di Peppino, la prima manifestazione nazionale, nella storia d’Italia, contro la mafia.

È il Centro a chiedere formalmente la riapertura dell’inchiesta, non solo sulla base della documentazione raccolta, ma anche della denuncia formale di madre e fratello di Peppino, che tra l’altro denunciavano l’atteggiamento equivoco dei carabinieri di Cinisi subito dopo la sua morte. Ci vorranno ben sei anni (maggio 1984) perché l’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, sulla base delle indicazioni del consigliere istruttore Rocco Chinnici (che aveva concepito e avviato il lavoro del primo pool antimafia e per questo fu assassinato nel luglio del 1983: autobomba davanti casa), emettesse una sentenza, firmata dal successore di Chinnici, Antonino Caponnetto, in cui si riconosceva la matrice mafiosa del delitto, attribuito però a ignoti. Ignoti.

Macché, piuttosto Notissimi ignoti come il Centro titolò una sua contro-inchiesta che indicava come mandante del delitto il boss Tano Badalamenti, nel frattempo condannato negli Stati Uniti a 45 anni di galera per traffico di droga. Ma nel 1992 il tribunale di Palermo archivia daccapo il caso Impastato pur ribadendone, stavolta, la matrice mafiosa. Due anni dopo, il Centro, che nel frattempo è stato intitolato a Peppino Impastato, formula una nuova istanza per la riapertura dell’inchiesta (ad appoggiarla c’è stavolta anche una petizione popolare), chiedendo che venga interrogato sul delitto il collaboratore di giustizia Salvatore Palazzolo, un tempo affiliato alla mafia di Cinisi. E in effetti, Palazzolo canta (ovviamente per ottenere il trattamento giudiziario più morbido, da “pentito”) confermando che il mandante dell’omicidio è Badalamenti, il probabile esecutore materiale Vito Palazzolo, cognome identico ma non parente dell’accusatore.

Solo nel 1997 scatta l’ordine di cattura per “Tano Seduto” e per il suo vice. Ai due distinti processi (Salvatore Palazzolo aveva chiesto il rito abbreviato) viene negata la costituzione di parte civile del Centro, di Rifondazione comunista e dell’Ordine dei giornalisti: ammessa solo quella della madre e del fratello di Peppino. Nel 2001 la Corte d’Assise di Palermo condanna Vito Palazzolo a trent’anni, pena confermata in cassazione; e l’anno dopo anche Gaetano Badalamenti è riconosciuto colpevole e condannato all’ergastolo. Ma “Tano Seduto” stava già scontando quasi mezzo secolo negli Usa e qui è morto nel 2004 nel penitenziario di Devens, Massachusetts.

Intanto, qualche anno prima, la Commissione parlamentare antimafia aveva costituito uno specifico Comitato sul delitto Impastato, approvando il 6 dicembre 2000 una relazione sulle responsabilità (rimaste tuttora impunite) di rappresentanti delle istituzioni nel depistaggio iniziale delle indagini. Tra i sospettati di aver sviato le indagini, l’allora maggiore e poi generale dei carabinieri Antonio Subranni. Chi è costui? La Direzione distrettuale antimafia di Palermo lo aveva indagato prima per favoreggiamento della latitanza nientedimeno che di Bernardo (Binnu) Provenzano, uno dei capi assoluti di Cosa Nostra arrestato dopo 43 anni di latitanza e morto di recente in carcere; e poi anche per i depistaggi durante le indagini sull’assassinio di Peppino.

La signora Agnese Pirajno Leto, moglie del giudice Paolo Borsellino, rivelò che il marito, poco prima di essere assassinato (autobomba nel 1992 che massacrò anche i cinque agenti della scorta), le aveva detto: «Ho visto la mafia in diretta perché mi hanno detto che il generale Subranni era punciutu», cioè affiliato alla mafia. Lui ha sempre negato e la Procura di Caltanissetta ha archiviato il procedimento nei suoi confronti. Ma proprio qualche giorno fa, lo stesso Subranni è stato condannato dalla Corte d’assise di Palermo a dodici anni di carcere (la stessa pena è stata data all’intimo di Berlusconi, Marcello Dell’Utri già in carcere per associazione mafiosa) per la “trattativa” tra settori dello Stato e criminalità mafiosa…

Ma il depistaggio sul delitto Impastato ci fu eccome, a tutti i livelli, e sin dagli albori del caso. Valga la testimonianza davanti all’Antimafia di Giovanni Impastato: «Sembrava che Badalamenti fosse ben voluto a Cinisi dai carabinieri, in presenza dei quali era calmo, sicuro, e con i quali parlava volentieri. Sembrava quasi che facesse loro un favore non facendo accadere nulla, rendendo sicura e calma la cittadina di Cinisi. […] Spesso si potevano vedere camminare insieme a Badalamenti e ai suoi guardaspalle. Non si può avere fiducia nella istituzioni quando si vedono braccio a braccio con i mafiosi».

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