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La santità civile dell’arcivescovo dei poveri

Ho incontrato monsignor Oscar Arnulfo Romero tanti anni fa a Perquin, un villaggio sperduto nella selva del Salvador. Era l’alba, cantavano i galli, sulla strada pochi contadini con i loro asini, bambini che si affacciavano alle porte sgangherate delle baracche di legno.

Nella piazza calcinata dal sole, il ritratto del vescovo martire vegliava sugli avamposti di una guerriglia cenciosa e spaurita: pochi tratti di pittura nera su una grande parete bianca. Sotto, un bivacco di militari ragazzi. Così lo abbiamo conosciuto, tanti di noi, quest’uomo mite e un po’ impacciato, gli occhi spalancati dietro la pesante montatura degli occhiali.

Una vita esemplare in difesa dei poveri e dei dimenticati. Una morte esemplare, la mattina del 24 marzo 1980, quando gli assassini, i sicari delle squadre paramilitari fasciste del Salvador, lo colpiscono in chiesa, davanti al suo popolo inginocchiato. Le parole spezzate dell’ultima omelia sono il suo testamento: «fratelli militari, appartenete al nostro stesso popolo, non uccidete i vostri fratelli contadini. Il Signore dice: non uccidere, e nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine che sia contrario alla legge di Dio».

Quest’uomo, ora santo per la chiesa di Roma, è un simbolo di amore e resistenza. E forse non è pura coincidenza il fatto che a portare a termine il lungo processo della canonizzazione sia Francesco, il Papa argentino, venuto dal “fin del mundo”, come alla fine del mondo appartiene la dimenticata patria di Romero. E sarà santo nello stesso giorno anche Paolo VI, il pontefice che in una lontana udienza romana esortò Romero ad andare avanti «con coraggio, con pazienza, con forza, con speranza».

Coincidenze, certo, ma spesso la storia del cuore – non la storia dei libri e delle avare teorie – si nutre di queste meravigliosa coincidenze. Noi laici guardiamo con rispetto alle motivazioni religiose di questa canonizzazione. Nel Concistoro, Oscar Arnulfo Romero è proclamato santo per aver operato la «guarigione miracolosa di una donna in pericolo di morte». Chi può dire che questo atto misericordioso, certificato dai saggi della Chiesa valga meno della santità civile guadagnata camminando al fianco dei poveri e degli offesi del suo popolo? Amore, in ogni caso.

L’arcivescovo di San Salvador appartiene a quella schiera di religiosi straordinari che hanno accompagnato il cammino, spesso doloroso, di tanti popoli diversi e ugualmente martoriati. Insieme al sudafricano Desmond Tutu, al nicaraguense Ernesto Cardenal, al messicano Samuel Ruiz, che gli indios del Chiapas chiamarono Tatic: padre, genitore. Ad alcuni di loro, ed è stato un privilegio, ho stretto la mano, con altri ho scambiato qualche parola. Questi ricordi oggi mi sono preziosi: certo non tutti saranno santi, ma tutti fanno parte dello stesso esercito di pace. Sono trascorsi tanti anni, ma spero che nella piazza assolata di Perquin il ritratto di Oscar Arnulfo Romero non sia stato cancellato, dalla natura o dagli uomini.

Da tempo il Salvador ha detto addio alle armi, ma ancora combatte una guerra muta e disperata contro la povertà, la violenza, l’arretratezza, lo schiaffo dell’ingiustizia. E gli uomini di buona volontà di questo Paese alla fine del mondo hanno ancora bisogno del loro Arcivescovo.