14 luglio 1948. Poco prima di mezzogiorno Palmiro Togliatti, in compagnia di Nilde Iotti, sta uscendo da un ingresso secondario della Camera diretto a Botteghe Oscure. Ad un tratto un colpo di rivoltella, seguito da altri. La prima pallottola fallisce il bersaglio. La seconda colpisce il segretario del Pci alla nuca, facendolo cadere. Ma il piombo per fortuna si schiaccia contro l’osso. Un terzo proiettile trafigge un polmone di Togliatti, la ferita più grave. In quell’istante Nilde Iotti si volta e vede Antonio Pallante, l’attentatore, che si avvicina – ha in mano una vecchia arma a tamburo, ma micidiale: calibro 38 – per sparare ancora, a distanza ravvicinata. Istintivamente Iotti si getta su Togliatti urlando. Mossa e grido confondono Pallante facendogli sbagliare la mira: il colpo raggiunge sì Togliatti ma di striscio, ad un fianco.
La rapidità degli eventi paralizza i pochi presenti. Iotti deve continuare a urlare perché non si lasci scappare l’attentatore, che infatti verrà acciuffato, arrestato, processato: pena modesta perché – si disse e si affermò nella sentenza – più che un fanatico era un mezzo infermo di mente. Sarà, ma è un fatto che costui era stato prima un giovane fascista, poi qualunquista, quindi vicino ad Almirante e infine ai liberali. Di più, in numerose interviste rievocatrici, rilasciate molti anni dopo, Pallante spiegò che Togliatti era «un nemico della Patria», «un agente dell’Urss», che insomma era «salutare per l’Italia la sua soppressione». Mica male per essere uno spostato. Condannato prima a 13 anni e mezzo, poi in appello ridotti a dieci, infine a sei dalla Cassazione (era scattato un indulto), alla fine uscì dal carcere dopo aver scontato cinque anni e cinque mesi. Tornò nella sua città, a Catania.
L’attentato – in un clima politico generale assai teso – si tradusse in uno shock violentissimo. Tutti intuirono che potevano accadere fatti ancora più gravi. Mentre un’ambulanza trasportava Togliatti al Policlinico dove il professor Pietro Valdoni, a Roma il più autorevole chirurgo dell’epoca, era già pronto per operarlo, i negozi cominciavano ad abbassare le saracinesche per timore del peggio: la voce dell’attentato si era sparsa come un fulmine. E infatti già nel primo pomeriggio il centro di Roma fu invaso da una gran folla in protesta, e assai duri furono gli scontri con la polizia, che mulinava con le jeep della “Celere”. Fanatico o seminfermo di mente lo sparatore, ma soprattutto “atto isolato” come si affrettò a sostenere il ministero dell’Interno? Certo quel gesto era covato e cresciuto nel clima acutissimo della campagna elettorale del 18 aprile, dello scontro frontale di tre mesi prima tra la Dc e il Pci-Psi.
Senza contare che, l’anno precedente, i comunisti, come i socialisti, erano stati estromessi dal governo in un clima internazionale di aperta rottura tra Est ed Ovest. E senza contare che in una Sicilia ancora ribollente per il post-separatismo c’erano stati l’attentato mafioso a Girolamo Li Causi e – nel contesto della furia non solo criminale ma anche politica della banda Giuliano e dei suoi mandanti, sempre rimasti oscuri – la strage di Portella della Ginestra (Primo maggio ’47, undici morti). Disse qualcuno, e divenne quasi senso comune, che la immediatamente successiva vittoria di Gino Bartali al Tour di Francia «salvò la democrazia in Italia» stemperando i momenti di paura suscitati dall’attentato a Togliatti. Pura e semplice banalizzazione degli eventi. Ma soprattutto un modo per appannare il ruolo financo istituzionale che, anche e proprio in quei momenti, ebbe lo stesso leader del Pci: mentre lo stavano caricando sull’ambulanza aveva sussurrato a Luigi Longo e Pietro Secchia: «State calmi, che non si perda la testa». Parlava con grande fatica, ma anche con grande lucidità raccomandando di mantenere i nervi saldi, che le masse mostrassero, esse sì, responsabilità, insomma che non succedesse un quarantotto.
A testimonianza di come e quanto il Togliatti sempre realista («totus politicus», lo aveva definito Benedetto Croce) sapeva tener conto, anche in quei drammatici momenti, dei rapporti di forza esistenti nel Paese, la sua compagna mi rivelò quarant’anni dopo un episodio inedito e molto significativo. «Quando qualche giorno dopo l’intervento chirurgico – raccontò Nilde Iotti – gli fu permesso di scorrere i giornali, Togliatti volle leggersi le cronache dell’attentato. Lo colpì, proprio sull’Unità, un titolone a nove colonne: Via il governo della guerra civile. Ricordo il suo commento: se avessero scritto Via il ministro dell’Interno, questa sì che sarebbe stata una richiesta non solo plausibile ma anche accettabile! E infatti più tardi si seppe che in Consiglio dei ministri, riunito d’urgenza lo stesso giorno dell’attentato, il ministro degli Esteri Carlo Sforza ed il suo sottosegretario, un giovanissimo Aldo Moro, avevano posto il problema delle dimissioni del ministro dell’Interno».
Il ministro dell’Interno era il già famigerato Mario Scelba, la cui responsabilità più grossa non fu tanto e soltanto quella di non aver saputo prevenire l’attentato (ma su questa mancata protezione di Togliatti c’era stata anche, per la inadeguata vigilanza dell’apparato del Pci, una furibonda reazione di Stalin), ma soprattutto quella di aver poi teso, nei fatti, ad esasperare le tensioni di quei giorni con continui caroselli, sparatorie e cariche della polizia non solo a Roma ma ovunque per il Paese: due morti a Napoli, uno a Taranto, un altro a Firenze…
E quando a Torino una decina di operai della Fiat decise di “sequestrare” l’amministratore delegato Vittorio Valletta, Scelba pensò di chiamare l’esercito. Fu lo stesso Valletta a bloccarlo e a sgonfiare la protesta di quel gruppo di operai con una battuta sarcastica: «Intanto andate a lavorare, altrimenti domani vi licenzio tutti e dieci». Sempre Scelba pensò addirittura alla immediata chiusura di tutte le sedi del Pci come “misura di sicurezza”. Ma De Gasperi bloccò la proposta che, quella sì, avrebbe potuto far degenerare la situazione. Fu lo stesso De Gasperi ad esprimere immediatamente al segretario del Pci la sua solidarietà. «Un gesto che ebbe un indubbio peso politico», chiosò la compagna di Palmiro Togliatti.
P.S. A proposito di Scelba, non è casuale che, esattamente due anni dopo, fosse proprio lui, il ministro di polizia, a inventarsi il famoso “conflitto a fuoco” con i carabinieri, in un cortile di Castelvetrano, in cui sarebbe stato ucciso il bandito Giuliano. Agli atti è ancora oggi questa la versione ufficiale, mentre tutti sanno che è una menzogna grossolana: Giuliano – con il ruolo determinante della mafia e delle così dette forze dell’ordine – fu ammazzato nel sonno da suo cugino Gaspare Pisciotta cui a sua volta, quando minacciò di rivelare sia i nomi dei mandanti della strage di Portella e sia della dinamica dell’eliminazione di Turiddu, fu tappata la bocca con un caffè alla stricnina nel carcere dell’Ucciardone… La memoria va coltivata, anche se il “conflitto a fuoco” di Castelvetrano è, tuttora, la verità di Stato.