INTERVISTE VISIONI

E se i perdenti fossero i veri vincitori?

Vincere è sempre piaciuto. A tutti. Inevitabile. Ma che si debba essere dei “vincenti” è diventato un mito oggi e per raggiungere quella meta troppo spesso si è disposti a tutto. L’attore Andrea Muzzi porta in scena uno spettacolo – All’alba perderò – che sfata questa spasmodica convinzione: perdere ha i suoi lati positivi ed il perdente non solo va accettato, ma in qualche caso preso ad esempio. Come il portiere di riserva Giancarlo Alessandrelli. Abbiamo intervistato il comico toscano

«Bisogna saper perdere, non sempre si può vincere…», cantava nel 1967 un giovane Shel Shapiro, leader dei Rockes, icona della musica pop di quegli anni e una delle firme più autorevoli del panorama musicale italiano. Il testo era un invito ad accettare l’ineluttabile destino e a non cambiare la propria vita dopo una sconfitta, in questo caso in amore.

La storia, l’arte, la musica, la scienza, lo sport, la letteratura, lo spettacolo sono costellati da memorabili sconfitte dalle quali sono nati altrettanti trionfi, grandi capolavori e straordinarie scoperte che hanno contribuito al progresso e alla crescita culturale dell’umanità. Difficile trovare qualcuno che, almeno una volta nella vita, non abbia dovuto mordere la polvere, gettare la spugna, forse arrendersi, azzerarsi e ricominciare.

Perdere deriva dall’omonimo verbo latino perdĕre, che tra i vari significati ha anche quello di mandare in rovina. Perdere può voler dire subire una sconfitta, fallire, mancare un’occasione, ma anche smarrire qualcosa, subire la perdita di una persona cara. In qualunque modo lo si guardi perdere non può avere che un significato negativo. A meno che non si sappia perdere, quindi reagire alla sconfitta e al fallimento trasformandoli nello stimolo alla rinascita e all’affermazione

Al concetto di perdere, il comico toscano Andrea Muzzi ha dedicato uno spettacolo teatrale dal titolo All’alba perderò, sottotitolo Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore, per citare un’altra celebre canzone. Prendendo ad esempio Steve Jobs, Becket, Churcill, raccontando le sconfitte di Agassi, Michael Jordan ed altri grandi campioni dello sport, lo spettacolo ribalta il concetto di perdere, da irreversibile sconfitta a chiave per affrontare le sfide e preparare le vittorie del proprio futuro.

La sconfitta di Waterloo

Andrea Muzzi, perché perdere, perché un tema scomodo e pesante, che non sembra molto adatto a far ridere?

Mi sono imbattuto per caso in una storia, a mio avviso molto emblematica, che mi ha ispirato. È quella di un vero fuoriclasse della sconfitta: Giancarlo Alessandrelli, portiere di riserva della Juventus negli anni ’70, che dopo 10 anni di “onorata” panchina, scese finalmente in campo e in soli 20 minuti riuscì a prendere 3 gol. Da lì è nata una riflessione su uno degli ultimi tabù della nostra società: il fallimento. E la figura del perdente.

Noi comici in fondo siamo maschere di perdenti: Totò, nei suoi spettacoli più riusciti, rappresentava il povero, la fame. Stanlio e Onlio erano due sfigati che vivevano di espedienti. Charlot era un clochard. Eppure, le loro storie di straordinari perdenti che riuscivano ad andare avanti malgrado tutto, non solo hanno fatto ridere intere generazioni, ma hanno lasciato un profondo insegnamento per il modo stesso in cui i personaggi che questo grandi comici hanno interpretato affrontavano la vita di tutti i giorni.

Una riflessione che ribalta anche il senso della sconfitta.

La sconfitta non è una vergogna. “Se io non avessi mai fallito, non avrai ottenuto i risultati di cui sono stati capace”. Lo ha detto Steve Jobs, non proprio uno qualunque ma uno dei più grandi geni visionari e creativi di questo e dello scorso secolo.
Genio e talento non sono sempre sinonimi di precocità. A volte si manifestano tardi nella vita e solo dopo tante sconfitte. Fallire e superare il fallimento è l’unica vera strada verso il successo. In ogni campo della vita.

Quindi, banalmente, sbagliando si impara.

Sì, se perdere ed essere sconfitti non è vissuto come uno stop traumatico, ma come un momento di riflessione, quello che serve a ricaricarsi per ripartire e ritrovare la propria strada. Non importa quanto ci vuole. Perdere è inevitabile, ma la vera sconfitta è non reagire alla sconfitta stessa.

Occorre toccare il fondo per risalire, con il rischio, per citare il compianto Freak Antoni, “di mettersi a scavare”.

Ecco. È qui che si vede la differenza tra il vero perdente e il vero vincente, il campione – e con questa parola voglio identificare tutti quelli che hanno raggiunto il risultato che si sono preposti nella vita – tra avere o non avere la consapevolezza che si può anche perdere e si può anche vincere. La sconfitta è un’opportunità e un mezzo per crescere, a patto che non ci si pianga addosso.

Ho letto le storie di grandi campioni dello sport, da Jury Chechi a Maradona, da Agassi a Pelé. Tutti loro hanno vinto perché hanno saputo trarre forza dalle tante sconfitte che hanno subito e affrontato.

Noi vediamo solo il momento della medaglia d’oro, lo smash della vittoria, la goleada della vita, ma non quanta polvere, quante lacrime e fatica per quel risultato. Non siamo consapevoli di tutte le sconfitte che hanno portato a quella vittoria e ci identifichiamo solo con il momento del “podio”, senza considerare e nemmeno immaginare come sia stato raggiunto quello stesso podio.

La nostra è una società per vincenti. L’immagine che ci viene propinata in ogni momento è quella del forte, il primo, il più bravo. Il perdente è out.

Il vero perdente è quello che vuole vincere per forza e che non accetta di perdere. Chi non accetta la sconfitta non accetta la natura delle cose. Di conseguenza il vero vincente è colui che sa perdere, che ha la capacità di rialzarsi. La sconfitta è la cosa più naturale, mentre la vittoria è l’eccezione. Se il bambino non cade non impara a camminare.

Purtroppo se la sconfitta viene vissuta come una vergogna, una macchia indelebile, un fallimento totale non c’è ricetta per superarla.

Pensa a un uomo che picchia o uccide una donna perché non accetta il rifiuto e, quindi, quella che lui ritiene essere una sconfitta. Sono casi estremi, ma denotato la forza dirompente che il fallimento può avere su un animo non pronto, non educato ad accettare o semplicemente non in grado di farlo.

Nelle tua esperienza di vita quante volte ti è capitato di perdere.

Tante volte, tantissime. Ma proprio quelle sconfitte mi hanno rafforzato, mi hanno reso migliore, mi hanno aiutato a capire e a trovare la strada. La sconfitta diventa utile solo se la si sa accettare, la si vive come un limite da superare. In caso contrario è una via crucis, un confronto impietoso con se stessi da cui si esce sempre perdenti.

Alla fine il tuo è un messaggio positivo e di speranza.

L’evoluzione umana è fatta da chi ha perso. Da quelli che tentavano e non ci sono riusciti. Le più grandi scoperte spesso sono nate da clamorosi errori e sconfitte, che tuttavia contenevano un’intuizione giusta.

Vorrei vivere un una società in cui chi fallisce non deve andare in giro con la maglia nera. Voglio lanciare una provocazione…piacerebbe che un giorno ci fosse una via dedicata a un mio compagno di scuola delle medie che faceva dei mostruosi errori di grammatica. Si chiamava Adriano Salvini. Via A. Salvini….Troppo facile intitolare una piazza a Dante Alighieri.

Andrea Muzzi, 50 anni il prossimo novembre, grossetano di origine, attore, autore e regista, porta in scena da sempre una comicità graffiante e mai scontata. Apprezzato cabarettista, conduttore del Laboratorio Zelig di Firenze e fondatore della Scuola nazionale di Comicità “Massimo Troisi” nel Capoluogo toscano, ha lavorato a lungo con Alessandro Benvenuti ed è stato interprete di molti film, tra cui pellicole di Pieraccioni, Ceccherini e dello stesso Benvenuti.

Muzzi ha nel suo dna artistico un misto di candore e ribellione. La sua comicità surreale e mai volgare, mira a centrare le emozioni che animano la vita delle persone, come la paternità, l’amore, la sconfitta, e a rileggere in chiave personale temi come il fascino degli eterni perdenti, l’avventura di una nascita, la forza rivoluzionaria e anarchica dell’amore.

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