Questo l’articolo pubblicato nel blog di Daniele Pugliese “Guardare negli occhi l’assurdo” su un tema drammaticamente attuale: la riaffermazione in molte forme di un regime totalitario e liberticida, ispirato all’odio razziale e al disprezzo della dignità umana, il fascismo. E su come porsi dinanzi ad esso.
Detesto quanto è “anti”. Penso valga più la pena essere a favore di qualcosa che contro. Perciò, per quanto lo sia, non mi piace definirmi “antifascista”. Questa è l’opzione che l’Associazione nazionale dei partigiani d’Italia offre a quanti non hanno fatto la Resistenza ma condividono e intendono tener desti i valori che l’hanno ispirata, cioè il desiderio di pace, giustizia, equità.
Non so quanti iscritti abbia l’Anpi, ma è ragionevole credere, per ovvi e tristi motivi, che sia in prevalenza costituita di “antifascisti” anziché di “partigiani”, i quali, lo dice la parola stessa, parteggiavano, stavano da una parte e prendevano parte, cioè partecipavano e facevano una scelta, spingendo in una direzione, battendosi cioè per qualcosa non solo contro. Avevano un’idea di dove andare a parare, perciò molti di loro hanno auspicato che, anche a conflitto terminato e a regime abbattuto, proseguisse la realizzazione di un mondo migliore di quello nel quale avevano fino ad allora vissuto.
Erano partigiani, penso, anche nel senso in cui Antonio Gramsci aveva impiegato questa parola nel suo articolo su “La città futura” dell’11 febbraio 1917 intitolato Indifferenti: «Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti». E concludeva: «Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti».
Non sono dunque indifferente ai preoccupanti segnali che giungono dalla situazione politica nazionale ed internazionale.
Nel mondo si contano 47 paesi coinvolti in guerre, un numero spaventoso di persone, più di 65 milioni nel 2015, costrette a fuggire da luoghi dove si combatte, senza contare quelle che lo fanno per fame, perché non hanno altro modo per mangiare. E questo a distanza di 73 anni dalla fine del secondo conflitto mondiale che molti – per quanto invano, ammirevolmente – avrebbero auspicato fosse l’ultimo sull’intero pianeta e mai più si fossero ripetuti gli orrori che l’avevano caratterizzato, a cominciare da quell’odio razziale che, tra il 1933 e il 1945, ha sterminato 6 milioni di ebrei e altri 11 milioni di “inferiori” e “diversi” di entrambi i sessi e di tutte le età: rom, sinti, jenisch, testimoni di Geova, pentecostali, omosessuali, malati di mente, portatori di handicap, prigionieri di guerra sovietici, oppositori politici, in prevalenza comunisti.
In alcuni paesi europei, da alcuni dei quali si fugge in cerca di un futuro economicamente migliore di quello possibile lì, sono andati al governo, con il consenso dei loro elettori, partiti dichiaratamente xenofobi i cui programmi e la cui prassi fanno davvero temere che si ispirino a principi propri del fascismo se non addirittura del nazismo.
In Italia nel triennio 2015-17 le Corti d’appello per conto del Ministero della Giustizia hanno registrato 853 crimini dettati dall’odio razziale: più di 284 all’anno, 0,77 al giorno, più di uno ogni 2 giorni, senza contare quelli che non vengono denunciati. Episodi gravissimi di violenza ed intolleranza si sono verificati in varie parti del paese; le parole di alcuni esponenti politici sono di una gravità estrema e rasentano l’apologia del fascismo che, nel rispetto della dodicesima norma transitoria e finale della Costituzione italiana e della legge n. 645 del 1952, costituisce un reato penale duramente perseguibile; sempre più spesso capita di ascoltare o di leggere considerazioni stolte, cariche di pregiudizio, nutrite di ignoranza e disinformazione che se la prendono con questo o quel gruppo etnico, con questa o quella minoranza.
Dinanzi a tutto ciò non si può restare neutrali, inermi, silenziosi, inattivi. Ed è lecito dirsi “antifascisti” laddove tutto ciò si configura effettivamente come un résumé di quell’ideologia totalitaria, illiberale, discriminante, oppressiva.
Tuttavia è bene ricordare – l’ha fatto su TESSERE Clelia Pettini illustrando il significato proprio della parola antifascista, così dimostrando che è un mirabile intento quello di disvelare o ampliare il proprio vocabolario e sapere cosa si sta dicendo – che questo termine fu coniato dai fascisti e non dai loro oppositori. Se ne servirono proprio loro, spiega Clelia Pettini attingendo all’enciclopedia Treccani «per designare i loro oppositori, mossi da una visione dicotomica della lotta politica. Lo fecero già prima della marcia su Roma del 1922, quando iniziarono a raggruppare sotto le comune definizione di antifascisti, non solo gli avversari politici, ma tutti coloro che si dimostravano perplessi o, semplicemente, poco entusiasti delle loro gesta e dei loro progetti».
Già solo quest’evidenza, oltre all’iniziale antipatia per la particella “anti”, mi indurrebbe a preferire alla definizione di antifascista quella di democratico, essendo il fascismo un sistema che dichiaratamente ed in maniera esplicita contesta la validità della democrazia, che ne disconosce il valore quale migliore dei sistemi politici finora sperimentati.
In virtù di tale considerazione, e sia chiaro senza alcuna vena polemica, mi verrebbe da suggerire ai dirigenti dell’Associazione nazionale dei partigiani d’Italia di sostituire la definizione di antifascista attribuita a quanti come me, non avendo partecipato per motivi d’età alla Resistenza, non possono essere definiti partigiano, com’è invece scritto sulla tessera dell’Anpi di mia madre che a quegli avvenimenti prese parte, seppur solo come staffetta. L’alternativa potrebbe essere, come ho poco prima affermato, quella di democratico, proprio perché si presuppone che un democratico non possa essere un fascista e voglia in cuor suo qualcosa di differente dal fascismo.
Ma se questa classificazione dovesse risultare troppo debole e generica, troppo edulcorata e viziata dal fatto che, ahimè, l’attuale democrazia fa pecca da tutte le parti e tollera troppo indifferentemente situazioni che appartengono al fascismo, si potrebbe optare per resistente, intendendo con ciò non solo l’identificazione con i principi della Resistenza, ma anche la tenacia e l’ostinazione a tenerli desti e ad opporsi a tutto quanto possa indurre a pensare che esperienze analoghe vogliano essere ripetute o ripercorse.
Il resistente è meno inerte dell’indignato e meno conflittuale dell’avversario, e porta in sé l’inequivocabile dote della costanza, della forza necessaria ad opporsi senza per ciò sopraffare, senza abuso della forza. Servirsi di questa parola al posto di democratico sottende anche un’altra considerazione.
Dirsi tale di questi tempi è ambiguo, perché dagli anni Ottanta, lentamente ma con determinazione, molto di ciò che dovrebbe caratterizzare la democrazia è stato umiliato e quel che rimane di essa, pur continuando a portare il medesimo nome, istiga la maggioranza, che è elemento determinante proprio della democrazia, ad ammettere e legittimare realtà diverse da essa, non esclusi regimi dittatoriali di stampo fascista che si caratterizzano per la forte vocazione razzista ed imperialista, perché chi è disposto ad umiliare l’altro qui non esiterebbe a farlo in casa sua, sulla sua terra e questo continua ad avvenire impunemente senza che nessuno più osi anche soltanto dire che è iniquo e rimarchevole, tanto meno “resistervi”.
L’aumento sproporzionato degli squilibri nella redistribuzione delle ricchezze rende del tutto evidente che una democrazia effettiva non esiste perché la stragrande maggioranza costretta ad arrabattarsi con le medesime risorse di cui dispone un’esigua minoranza con gradazioni di dislivello che costringono i più a non disporre dell’indispensabile o a temere seriamente di perderlo è l’inequivocabile dimostrazione non solo dell’oligopolio esistente, che è appunto una non democrazia, ovvero sia della volontà di una minoranza di perpetrare tale ingiustizia sfruttando gli altri a proprio tornaconto, ma anche del disinteresse della maggioranza verso questo stato di cose, della propria rassegnata adesione a questo “destino”, dell’esistenza di una colossale quantità di indifferenti vituperati da Gramsci.
Il fatto che le politiche dei governi non riescano a ribaltare questa situazione; che gli stessi partiti non si facciano promotori di un cambiamento nemmeno nel lungo periodo; che le politiche nazionali non si propongano diversi equilibri internazionali; che si voti per un premier e se ne debbano accettare altri; che i media sempre di più siano di proprietà di poteri forti e solo economici; che la finanza detti le sue leggi addirittura agli Stati; che il lavoro sia diventato un lusso anziché il dignitoso modo di garantire la propria sopravvivenza; che sempre meno persone si rechino alle urne; che le assemblee rappresentative siano tenute in sempre minor conto e il più delle volte facciano di tutto perché il loro ruolo sia distante e disattento alle esigenze di quanti lì sono rappresentati; che la fiducia nella giustizia e in chi l’amministra sia scemata a livelli minimi; che regole e leggi – non queste o quelle, ma esse in generale – siano tenute in tanto disprezzo; che il massimo della protesta sia una frase pungente sui social o l’esternazione dei propri malumori durante la pausa caffè o incontrando qualcuno sull’autobus, testimoniano inequivocabilmente quanto la democrazia sia ormai poco più che una parola vuota e quanto già da tempo si sia dinanzi non ad un rischio che essa venga soppressa, ma ad un feticcio di essa, ad un paravento di qualcos’altro che si essa ha solo la parvenza.
Trovo preoccupante che molti nelle giovani generazioni ignorino quanto duro e faticoso, spesso drammaticamente pericoloso, sia stato conquistare ogni singolo pezzetto di quello che appunto è la linfa della democrazia ed altrettanto risentire la riproposizione della teoria degli “opposti estremismi” come una litania buona solo a far sì che tutto resti com’è.
Sono convinto, e l’ho già detto in varie salse, che con l’acqua sporca degli obbrobri commessi in nome del socialismo si sia buttato via anche l’unico bambino in grado di prospettare – insieme al costante esercizio dell’affermazione della responsabilità, del rispetto e della laicità, del ricorso alla coscienza e all’incessante appello alla ragione – una coesistenza sociale rispettosa degli individui, proficua alla loro esistenza anziché d’ostacolo ad essa, capace di imporre la pace e di garantire la libertà, facendole sentire come un bene inalienabile, che non si può barattare con nient’altro, in ispecie con nient’altro che venga messo in commercio in un centro commerciale.
E sono altrettanto convinto che il socialismo possa definirsi tale solo e soltanto se è democratico, se è in grado di farsi apprezzare e sostenere dalla maggioranza portando al tempo stesso rispetto alla minoranza, a tutte le minoranze, ad ogni diversità, purché accettino esse stesse il principio democratico, della non sopraffazione, dell’esclusione del ricorso alla violenza.
E sono infine convinto che sull’altare di tali convinzioni si possa e si debba accettare anche di essere in minoranza. Democratici e resistenti.