Guido Moltedo direttore della rivista “Ytali”, si è preso l’oneroso impegno di tradurre in italiano il discorso che Bob Dylan, anziché leggerlo in occasione della cerimonia di assegnazione del Premio Nobel per la letteratura che gli è stato riconosciuto il 10 dicembre 2016, ha inviato lo scorso 4 giugno con una registrazione di 27 minuti. Aveva già spiegato in una lettera (la si può leggere qui) affidata all’ambasciatrice americana in Svezia Azita Raji, le ragioni della sua assenza. Si tratta del discorso di accettazione, la Nobel Lecture che va pronunciata entro sei mesi dal giorno dell’assegnazione, requisito per ricevere l’assegno di otto milioni di corone, l’equivalente di 819mila euro, previsto per il vincitore del Nobel. Be’, meritava diffondere queste sue parole, ringraziando appunto chi le ha tradotte.
BOB DYLAN
Quando ho ricevuto questo Premio Nobel per la Letteratura, la prima cosa è stata chiedermi come esattamente le mie canzoni potessero avere a che fare con la letteratura. Ho voluto rifletterci su e vedere dove fosse il collegamento. Cercherò di argomentarlo. E molto probabilmente lo farò girandoci intorno, ma spero che quanto dirò ne valga la pena e sia di qualche utilità.
Se dovessi tornare agli albori di tutto, credo che dovrei iniziare con Buddy Holly. Buddy morì quando io avevo circa diciott’anni e lui ventidue. Dal momento in cui l’ascoltai la prima volta, lo sentii come un parente. Avvertivo un legame con lui, quasi fosse un fratello maggiore. Ho anche pensato che gli assomigliavo. Buddy suonava la musica che amavo – la musica con cui sono cresciuto: country western, rock ‘n’ roll, rhythm and blues. Tre filoni distinti di musica che s’intrecciano e si fondono in un unico genere. Un unico brand. E Buddy scriveva canzoni – canzoni che avevano belle melodie e versi immaginifici. E cantava alla grande – cantava in più voci. Era l’archetipo. Tutto quello che non ero e avrei voluto essere. Lo vidi solo una volta, e questo pochi giorni prima che se ne andasse. Avevo dovuto percorrere cento miglia per vederlo suonare, e non ne rimasi deluso.
Era potente ed elettrizzante e aveva una presenza imponente. Ero a neppure un paio di metri da lui. Era incredibile. Gli guardai il volto, le mani, il modo in cui batteva il piede, i grandi occhiali neri, gli occhi dietro gli occhiali, il modo in cui teneva la chitarra, il modo in cui stava dritto, l’abito ben messo. Tutto su di lui. Sembrava avesse più di ventidue anni. Qualcosa di lui sembrava immutabile, e ne rimasi più che appagato. Poi, come un fulmine a ciel sereno, successe la cosa più stupefacente. Mi guardò fisso negli occhi e trasmise qualcosa. Qualcosa che non sapevo cosa fosse. E mi diede i brividi.
Penso che un giorno o due dopo il suo aereo precipitò. E qualcuno – qualcuno che non avevo mai visto prima – mi passò un disco di Leadbelly con su la canzone Cottonfields. Quel disco, da quel momento in poi, cambiò la mia vita. Mi condusse in un mondo che non avevo mai conosciuto. Come ci fosse stata un’esplosione. Come se avessi camminato nell’oscurità e all’improvviso l’oscurità si fosse illuminata. Era come se qualcuno mi avesse imposto le mani. Devo aver messo su quel disco centinaia di volte.
Era un’etichetta di cui non avevo mai sentito parlare, con dentro un opuscolo pubblicitario degli altri artisti dell’etichetta: Sonny Terry e Brownie McGhee, i New Lost City Ramblers, Jean Ritchie, e altre string band. Non avevo mai sentito parlare di nessuno di loro. Ma pensai che se erano in questa etichetta con Leadbelly, dovevano essere bravi, quindi era necessario ascoltarli. Volevo sapere tutto e suonare quel tipo di musica. Avevo ancora un feeling per la musica con cui ero cresciuto, ma adesso me l’ero messa via. Non ci pensavo proprio. Adesso, era roba del passato.
Non ero ancora andato via da casa, ma non vedevo l’ora. Volevo imparare questa musica e conoscere le persone che la suonavano. Alla fine, me ne andai da casa, e imparai a suonare quelle canzoni. Erano diverse dalle canzoni che avevo fin allora ascoltato alla radio per tanto tempo. Erano più vibranti e autentiche, parlavano della vita. Nelle canzoni radiofoniche, un esecutore poteva far colpo con un tiro di dadi o smazzando le carte, ma che importava alla gente. L’importante era essere in testa alla classifica. Tutto quello che dovevi fare era essere versato ed eseguire la melodia. Alcune di queste canzoni erano facili, altre no. Avevo un feeling naturale per le vecchie ballate e il country blues, ma tutto il resto dovetti impararlo da zero. Mi esibivo di fronte a piccole platee, a volte non più di quattro o cinque persone in una stanza o in un angolo di strada. Dovevi avere un ampio repertorio, e dovevi sapere cosa eseguire e quando. Alcune canzoni erano intime, in altre dovevi gridare per essere ascoltato.
Ascoltando tutti gli artisti popolari della prima ora e cantando tu le canzoni, t’impadronisci del vernacolo. L’interiorizzi. Lo canti nel ragtime blues, nelle work song, nelle Georgia sea shanty, nelle Appalachian ballad e nelle cowboy song. Impari a cogliere le finezze, e a padroneggiare i dettagli.
Sapete cosa voglio dire. Estrarre la pistola e rimetterla in tasca. Farsi largo nel traffico, parlare al buio. Lo sapete, no, Stagger Lee è un tipo cattivo e Frankie è una brava ragazza. Sapete, no, Washington è una città borghese e avete sentito la voce profonda di John the Revelator e avete visto il Titanic affondare in un torrente tortuoso. E voi siete gli amici del wild Irish rover e del wild colonial boy. Avete sentito il suono smorzato dei tamburi e quello basso dei pifferi. Avete visto il gagliardo Lord Donald infilzare la moglie con un coltello e tanti dei vostri compagni avvolti in lenzuola bianche.
Avevo messo giù dentro tutto il vernacolo. Conoscevo la retorica. Non mi sfuggiva più nulla – i dispositivi, le tecniche, i segreti, i misteri – e conoscevo anche tutte le strade deserte che avevo attraversato. Riuscivo a collegare tutto e a muovermi con la corrente della giornata. Quando ho iniziato a scrivere le mie canzoni, il linguaggio popolare era l’unico vocabolario che conoscessi, e l’ho usato.
Ma avevo anche qualcos’altro. Avevo principi, sensibilità e una visione informata del mondo. E ne avevo avuto per un po’. Tutto imparato a scuola. Don Chisciotte, Ivanhoe, Robinson Crusoe, Viaggi di Gulliver, Racconto di due città, e tutto il resto – le tipiche letture scolastiche che ti davano un modo di guardare la vita, una comprensione della natura umana e un metro per misurare le cose. Ho preso tutto questo con me quando ho iniziato a comporre i testi. E i temi di quei libri si facevano strada in molte delle mie canzoni, consapevolmente e involontariamente. Volevo scrivere canzoni diverse da qualunque cosa chiunque avesse mai sentito, e questi temi erano fondamentali.
Libri specifici che mi sono rimasti attaccati fin da quando li lessi ai tempi della scuola – voglio citarvene tre: Moby Dick, Niente di nuovo sul fronte occidentale e l’Odissea.
Moby Dick è un libro affascinante, un libro ricco di scene di intensità drammatica e di dialoghi drammatici. Il libro pretende molto da chi lo legge. La trama è semplice. Il misterioso capitano Achab – capitano di una nave chiamata Pequod – un egomaniaco con una gamba di legno che insegue la sua nemesi, la grande balena bianca Moby Dick che gli aveva preso quella gamba. E l’insegue attraverso tutto l’Atlantico, attorno all’estremità dell’Africa, fin nell’Oceano Indiano. Insegue la balena attorno a due parti della terra. È un obiettivo astratto, niente di concreto o definitivo. Chiama Moby l’imperatore, la vede come l’incarnazione del male. Achab ha moglie e un figlio a Nantucket che ricorda di tanto in tanto. Puoi prevedere cosa succederà.
L’equipaggio della nave è composto da uomini di razze diverse e chiunque di loro avvisterà per primo la balena riceverà come ricompensa una moneta d’oro. Quanti simboli, quante allegorie religiose, quanti stereotipi.
Achab incontra altre barche di caccia alla balena, incalza i loro capitani per avere dettagli su Moby. L’hanno vista? C’è un profeta pazzo, Gabriel, a bordo di una di queste imbarcazioni che predice la sventura di Achab. Sostiene che Moby è l’incarnazione di un dio che gioca a dadi, e che qualsiasi relazione con lui porterà al disastro. E lo dice al capitano Achab. Il capitano di un’altra imbarcazione – il capitano Boomer – ha perso un braccio, gliel’ha preso Moby. Ma se n’è fatto una ragione, è felice di essere sopravvissuto. Non accetta l’anelito di Achab a vendicarsi.
Questo libro spiega come ognuno reagisca in modo diverso alla stessa esperienza. C’è tanto vecchio Testamento, allegoria biblica: Gabriele, Rachele, Geroboamo, Bildah, Elia. Anche i nomi pagani: Tashtego, Flask, Daggoo, Fleece, Starbuck, Stubb, Martha’s Vineyard. I pagani sono adoratori di idoli. Alcuni adorano piccole figure di cera, altri rivolgono preghiere a figure di legno. Altri ancora al fuoco. Pequod è il nome di una tribù indiana.
Moby Dick è un racconto di viaggi di mare. Uno degli uomini, il narratore, dice: «Chiamami Ismael». Qualcuno gli chiede da dove viene, lui dice: «Non c’è sulle mappe, i luoghi veri non ci sono mai».
Stubb non dà importanza a nulla, dice che tutto è predestinato. Ismael è stato su un veliero tutta la vita. Chiama le navi le sue Harvard e Yale. Tiene le distanze dalle persone.
Un tifone colpisce il Pequod. Il capitano Achab pensa che sia un buon segno. Starbuck pensa che sia un cattivo segno, medita l’uccisione di Achab. Non appena finisce la tempesta, un membro dell’equipaggio cade dall’albero della nave e annega, preannunciando ciò che verrà. Un prete quacchero, pacifista, che in realtà è un uomo d’affari assetato di sangue, dice a Flask: “Ci sono uomini che ricevono ferite e sono portati verso Dio, altri che finiscono nell’amarezza”.
Tutto è mescolato. Tutti i miti: la bibbia giudaico-cristiana, i miti indù, le leggende britanniche, San Giorgio, Perseo, Ercole – sono tutti cacciatori di balene. La mitologia greca, il lavoro cruento della macellazione di una balena. Tanti i fatti in questo libro, la conoscenza geografica, l’olio di balena – che va bene per l’incoronazione reale – famiglie nobili dell’industria baleniera. L’olio di balena è usato per ungere i re. La storia della balena, frenologia, filosofia classica, teorie pseudo-scientifiche, giustificazione per la discriminazione – tutto gettato dentro e niente di tutto questo minimamente razionale. Toni elevati. Toni infimi. La caccia a illusioni. L’inseguimento della morte, la grande balena bianca, bianca come l’orso polare, bianca come l’uomo bianco, l’imperatore, la nemesi, l’incarnazione del male. E il capitano fuori di testa che ha perso la gamba anni fa e che cerca di attaccare Moby con un coltello.
Vediamo solo la superficie delle cose. Possiamo interpretare ciò che c’è sotto come meglio ci pare. Gli uomini dell’equipaggio s’aggirano sul ponte, ascoltando le sirene, e gli squali e gli avvoltoi seguono la nave. Leggi teschi e volti come leggessi un libro. Ecco un volto. Te lo metto davanti. Leggilo se puoi.
Tashtego dice che è morto e rinato. I giorni in più sono un dono. Non è stato salvato da Cristo, ma, dice, lo deve a un collega, per giunta un non cristiano. Parodia della risurrezione.
Quando Starbuck dice ad Achab che dovrebbe lasciare che il passato passi, il capitano s’arrabbia e gli fa di rimando: «Non parlarmi in modo blasfemo, uomo, colpirei il sole se m’insultasse». Anche Achab è un poeta eloquente. Dice: «Il cammino verso lo scopo che mi sono prefissato procede su binari su cui la mia anima è plasmata per correre». Oppure queste righe, «Tutti gli oggetti visibili non sono che maschere di cartapesta». Citazioni poetiche imbattibili.
Alla fine Achab intercetta Moby, spuntano gli arpioni. Vengono calate le scialuppe. L’arpione di Achab ha il battesimo del sangue. Moby attacca la barca di Achab e la distrugge. Il giorno dopo Moby è di nuovo avvistata. Le barche ancora calate. Moby torna ad attaccare la barca di Achab. Il terzo giorno esce un’altra scialuppa. Altre allegorie religiose. È risorto. Moby attacca di nuovo, sperona il Pequod e l’affonda. Achab s’avviluppa nella corda dell’arpione ed è gettato nella sua tomba marina.
Ismael sopravvive. Galleggia sul mare in una bara. E questo è tutto. Tutta qui la storia. Il tema, con quel che implica, è presente in molte delle mie canzoni.
Niente di nuovo sul fronte occidentale è stato un altro libro decisivo. Niente di nuovo sul fronte occidentale è una storia horror. È un libro in cui dai l’addio all’innocenza, alla fede in un mondo sensato e alla sensibilità per il prossimo. Sei come imprigionato in un incubo. Succhiato in un vortice misterioso di morte e dolore. Devi difenderti dall’eliminazione, dall’essere cancellato dalle mappe. Un tempo eri un giovane innocente con grandi sogni, speravi di diventare un pianista da concerto. Una volta amavi la vita e il mondo, e adesso lo stai facendo a pezzi.
Giorno dopo giorno, le vespe ti mangiano e i vermi ti girano nel sangue. Sei un animale all’angolo. Dappertutto ti senti fuori posto. La pioggia che scende è monotona. Gli assalti si ripetono all’infinito, gas velenosi, gas nervino, morfina, vapori fumanti di benzina, cosa non si fa per un po’ di cibo, influenza, tifo, dissenteria. La vita sta franando intorno a te, e le granate fischiano. Questa è la regione più infima dell’inferno. Fango, filo spinato, trincee piene di topi, ratti che mangiano gli intestini di cadaveri, trincee piene di sporcizia e di escrementi. Qualcuno grida: “Ehi, tu, in piedi e combatti”.
Chissà quanto durerà questo casino. La guerra non ha limiti. Ti ha annichilito, e quella tua gamba sta sanguinando troppo. Hai ucciso un uomo ieri, e hai parlato con il suo cadavere. Gli hai detto che quando tutto questo sarà finito, passerai il resto della tua vita a occuparti della sua famiglia. Chi ne sta approfittando? I capi e i generali si fanno la fama, e molti altri ne beneficiano finanziariamente. Ma sei tu che stai facendo il lavoro sporco. Uno dei tuoi compagni dice: «Aspetta un attimo, dove vai?» E tu dici: «Lasciami in pace, torno tra un minuto». Poi entri nel bosco della morte a caccia di un pezzo di salsiccia. Come fai a vedere tu che c’è qualcuno nella vita civile che abbia un qualche scopo? Tutte le loro preoccupazioni, tutti i loro desideri, non li puoi capire.
Altre mitragliatrici, altri pezzi di corpi appesi ai cavi, altri pezzi di braccia e gambe e teschi, denti su cui s’appollaiano farfalle, ferite più spaventose, pus che esce da ogni poro, polmoni squarciati, ferite troppo grandi per il corpo, cadaveri che sprigionano gas, corpi morti che emettono ronzii. La morte è ovunque. Nient’altro è possibile. Qualcuno ti ucciderà e userà il tuo corpo morto per esercitarsi al tiro. E poi gli stivali. Sono il tuo prezioso bottino. Ma presto ci saranno dentro i piedi di qualcun altro.
Ecco quei mangiarane di francesi che s’avvicinano tra gli alberi. Bastardi spietati. Le granate stanno finendo. «Non è giusto che già ci vengano addosso», dici. Uno dei tuoi compagni giace nella melma e vuoi portarlo all’ospedale di campo. Qualcun altro dice: «Risparmiati il viaggio». «Che vuoi dire?» «Rigiralo, e vedi cosa voglio dire».
Non vedi l’ora di sentire il notiziario. Non capisci perché la guerra non sia ancora finita. L’esercito è ossessionato dal rimpiazzo dei soldati e arruola giovani ancora ragazzi che sono di scarsa utilità militare, ma comunque li arruola perché non ha più uomini. Malattia e umiliazione t’hanno spezzato il cuore. Sei stato tradito dai genitori, dal tuo maestro di scuola, dai tuoi preti, e anche dal tuo governo.
Ti ha tradito anche il generale che fuma lentamente il suo sigaro – ti ha trasformato in un bandito, in un assassino. Potessi, gli ficcheresti un proiettile in faccia. Anche il comandante. Fantastichi che se avessi i soldi, daresti una ricompensa a chiunque gli tolga la vita non importa come. E se perdesse lui la vita facendolo, faresti in modo che i soldi vadano ai suoi cari. Anche il colonnello, con il suo caviale e il suo caffè – quello è un altro. Passa tutto il tempo nel bordello degli ufficiali. Anche lui, vorresti vederlo lapidato a morte. E poi i tanti Tommy e i Johnny con il loro whack fo’ me daddy-o e il loro whiskey in the jars. Uccidine venti e altri venti li rimpiazzeranno. Senti la puzza nelle narici.
Sei arrivato a disprezzare la vecchia generazione, quella che ti ha mandato in questa follia, in questa camera di tortura. Tutt’intorno a te, i tuoi compagni stanno morendo. Muoiono per le ferite all’addome, le doppie amputazioni, le anche fracassate, e pensi: «Ho solo vent’anni, ma sono in grado di uccidere chiunque, anche mio padre, se me lo trovo davanti».
Ieri hai cercato di salvare un cane porta-messaggi ferito e qualcuno ti gridava: «Non fare lo stupido». Un mangiarane giace ai tuoi piedi, gorgoglia. L’hai bloccato infilzandogli un pugnale nello stomaco, ma l’uomo è ancora vivo. Sai che devi finire il lavoro, ma non ce la fai. Sei su una croce di ferro e un soldato romano ti mette sulle labbra una spugna intrisa d’aceto.
Passano i mesi. Hai un permesso per tornare a casa. Con tuo padre non comunichi. Lui t’aveva detto: «Sei un codardo se non t’arruoli». Anche tua madre, sulla porta di casa, ti fa: «Adesso stai attento, con quelle ragazze francesi». Altra follia. Combatti una settimana o un mese e conquisti una decina di metri. E poi il mese successivo ti vengono ripresi.
Tutta quella cultura di migliaia d’anni fa, quella filosofia, quella saggezza – Platone, Aristotele, Socrate – che cosa le è successo? Avrebbe dovuto prevenire tutto questo. I pensieri ti portano a casa. di nuovo sei lo scolaro che cammina tra gli alti pioppi. Gradevole ricordo. Altre bombe ti cadono giù su dai dirigibili. Devi ricomporti. Non riesci nemmeno a guardare nessuno per paura che accada qualcosa di sbagliato. La tomba comune. Non ci sono altre possibilità.
E allora noti i ciliegi in fiore e vedi che la natura non è toccata da tutto questo. I pioppi, le farfalle rosse, la fragile bellezza dei fiori, il sole – vedi come la natura sia indifferente a tutto ciò. Tutta la violenza e la sofferenza di tutta l’umanità. La natura neppure la nota.
Sei solo. Poi un pezzo di shrapnel ti colpisce di lato alla testa e sei morto.
Sei stato eliminato, cassato. Sei stato sterminato. Ho posato il libro e l’ho chiuso. Non ho mai voluto leggere un altro romanzo di guerra, mai più.
Charlie Poole, della North Carolina, aveva una canzone che si collega a tutto questo. S’intitola Non stai parlando con me, e il testo va così:
Ho visto un volantino su una vetrina un giorno che andavo in città
Arruolati nell’esercito, vedi il mondo, era quello che diceva.
Vedrai posti eccitanti con un equipaggio allegro,
Incontrerai persone interessanti, e imparerai pure a ucciderli.
Oh, non stai parlando a me, non stai parlando con me.
Posso essere pazzo e tutto quello che vuoi, ma vedi io ho buon senso.
Non mi stai parlando, non mi stai parlando.
Uccidere con una pistola non mi sembra divertente.
Non stai parlando a me.
L’Odissea è un gran libro, i suoi temi ricorrono nelle ballate di molti autori: Homeward Bound, Green, Green Grass of Home, Home on the Range e pure nelle mie canzoni.
L’Odissea è un racconto strano e avventuroso di un adulto che cerca di tornare a casa dopo aver combattuto in una guerra. Il suo viaggio di ritorno a casa è pieno di trappole e insidie. È condannato a vagare. È sempre trascinato al largo, la sua vita sempre sul filo. Macigni colpiscono la sua barca. Fa arrabbiare persone che non dovrebbe. Ci sono delle teste calde nella ciurma. Tradimento. I suoi uomini sono prima trasformati in maiali per poi tornare uomini più giovani e più belli. Sta sempre cercando di salvare qualcuno. È un uomo in viaggio, anche se fa un sacco di fermate.
È bloccato su un’isola deserta. Trova grotte deserte e ci si nasconde. Incontra i giganti che gli dicono: «A te, ti mangerò per ultimo». E scappa dai giganti. Cerca di tornare a casa, ma è sballottato e girato dai venti. Venti incessanti, venti freddi, venti ostili. Riesce ad andare lontano ma i venti lo respingono indietro.
È sempre avvertito di cose in arrivo. Tocca cose che gli è stato detto di non toccare. Ha due strade che può percorrere, ma sono entrambe cattive. Entrambe pericolose. Lungo una delle due rischia d’annegare, nell’altra di morire di fame. Percorre angusti stretti di vortici schiumosi che l’ingoiano. Incontra mostri a sei teste dalle zanne affilate. È colpito da fulmini. Con un salto agguanta i rami per salvarsi dalle furie di un fiume. Dee e dèi lo proteggono, ma c’è chi vuole ucciderlo. Cambia identità. È esausto. Sprofonda nel sonno, ed è svegliato dal suono delle risate. Racconta la sua storia agli sconosciuti. Sono vent’anni che gira. Fu portato da qualche parte e lasciato lì. Nel suo vino ci hanno messo delle droghe. È stata una strada difficile da percorrere.
Per tanti versi, cose così sono capitate anche a te. Anche a te hanno messo droghe nel vino. Anche tu hai condiviso il letto con la donna sbagliata. Anche tu sei stato ammaliato da voci magiche, da voci dolci dalle strane melodie. Anche tu sei andato lontano e sei stato rimandato indietro lontano. E anche tu hai camminato sul filo del rasoio. Hai fatto arrabbiare persone che non avresti dovuto. E anche tu sei andato in giro dappertutto in questo paese. E hai anche sentito quel vento infido, quel vento che non soffia per te bene. E non è ancora tutto.
Quando torna a casa, le cose non vanno meglio. I farabutti si sono trasferiti lì e approfittano dell’ospitalità di sua moglie. E ce ne sono troppi. E sebbene sia più forte di tutti quanti insieme e il migliore in tutto – il miglior carpentiere, il miglior cacciatore, il migliore esperto di animali, il miglior marinaio – non lo salverà il suo coraggio, ma la sua astuzia.
Dovranno pagare, tutti questi sbandati, per aver profanato il suo palazzo. Si travestirà facendosi passare per un mendicante lacero, e un servo infimo lo prende a calci giù per le scale con arroganza e stupidità. L’arroganza del servo è rivoltante, ma controlla la sua rabbia. È uno solo contro un centinaio, ma cadranno tutti, anche i più forti. Lui non era nessuno. E quando tutto è detto e fatto, quando è finalmente a casa, siede con sua moglie e le racconta le vicende.
Che significa tutto ciò? Io e molti altri cantautori siamo stati influenzati proprio da questi temi. Possono significare un sacco di cose. Se una canzone ti prende, questa è la cosa che importa. Non devo sapere che significa una canzone. Ho scritto di tutto nei miei pezzi. Non mi preoccupo di cosa vogliono dire.
Quando Melville ci ha messo tutto il vecchio testamento, i riferimenti biblici, le teorie scientifiche, le dottrine protestanti e tutta quella conoscenza del mare, delle navi e delle balene in una sola storia, non credo che neppure lui si preoccupasse di questo – che cosa significa tutto questo.
Anche John Donne, il poeta-prete che visse ai tempi di Shakespeare, scrisse queste parole: «Il Sesto e l’Abido dei suoi seni. Non due amanti, ma due amori, i nidi». Non so cosa voglia dire. Ma suona bene. E quel che vuoi è che le tue canzoni suonino buone.
Quando Ulisse nell’Odissea visita il valoroso guerriero Achille negli inferi, Achille, che ha rinunciato a una vita lunga e piena di pace e di soddisfazione per una vita breve carica di onore e gloria, dice a Ulisse che il suo è stato un errore. «Sono appena morto, è tutto». Non c’è stato alcun onore. Nessuna immortalità. Avesse potuto, avrebbe scelto di tornare indietro ed essere l’infimo schiavo di un contadino sulla Terra piuttosto che essere quello che è – un re nella terra dei morti – e, non importa quali sarebbero stati i tormenti nella vita, ma sarebbero stati preferibili al trovarsi qui in questo posto di morte.
Anche questo sono le canzoni. Le nostre canzoni sono vive nella terra dei vivi. Ma le canzoni non sono come la letteratura. Sono fatte per essere cantate, non lette. Le parole di Shakespeare dovevano essere recitate sul palcoscenico. Proprio come i testi delle canzoni sono destinati a essere cantati, non letti. Spero ci sia tra voi chi possa ascoltare questi testi nel modo in cui sono stati concepiti: in concerto o su un disco o in qualunque altro modo oggi s’ascolta la musica. Torno ancora una volta a Omero, che dice: «Narrami, oh Musa».
traduzione di Guido Moltedo