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Cani bianchi e uomini neri

C’è un ministro della Repubblica che vorrebbe vederli scendere in manette dall’imbarcazione che li ha raccolti in mare. Come una volta gli schiavi scendevano – in catene e in ceppi, a suon di frustate – dalle navi negriere. C’è un altro ministro che si sveglia turbato e li definisce facinorosi.

Suvvia, non fate le anime belle, non fate i buonisti! Non fate finta di non sapere, conoscete anche troppo bene di chi si parla. Non sono gli immigrati, non sono i profughi, non sono nemmeno i clandestini, o gli illegali, o gli illeciti, come li chiama, con prosa notarile, un terzo ministro.

Il problema è che sono neri, neri come la notte, neri come la pece, neri come la fame, neri come il peccato. È il nero, oggi, a fare scandalo. Il ragazzo nero che incontri per strada, la donna nera che viaggia sul tuo autobus, il nero che chiede l’elemosina, la ragazza nera che si vende nelle notti cittadine, i neri che in gruppo raccolgono i pomodori o scaricano cassette, o lavorano di zappa e sudore nelle verdi campagne del Bel Paese.

E poi, inaudito! Il nero con il cellulare, il nero che pedala in bicicletta, il nero che compra al mercato, il nero che indossa una maglietta alla moda. Immigrati, direte. Sì certo, immigrati. Ma negli anni Novanta gli immigrati erano albanesi. E tutti gli albanesi naturalmente rubavano, tutti naturalmente erano ladri. Poi vennero i rumeni, e tutti i rumeni naturalmente erano violenti e ubriaconi. Poi vennero, e vengono ancora, gli islamici. E tutti gli islamici naturalmente sono terroristi o aspiranti o fiancheggiatori o complici di terroristi. Tutti, più o meno, si sono accomodati. Come gli italiani, magari un gradino più sotto, lavorano o sono disoccupati, hanno famiglia, a volte rubano, spesso se ne stanno in galera.
Ma i neri, riconosciamolo, sono un’altra cosa. Basta guardarli in faccia, i neri. Quel colore indelebile, quei lineamenti, quello stigma di razza. Se hai paura del diverso, se diffidi dello straniero, sei xenofobo. Ma se hai paura di un colore della tavolozza umana, sei – e non c’è altra parola – razzista a pieno titolo.

C’è un fiume profondo che attraversa il nostro paese e di cui non sospettavamo l’esistenza. Pestilenziale, un’onda carsica che oggi affiora e che tracima. Intorno a questa polla maleodorante, ulula al vento il branco sempre più numeroso e sempre più affamato dei “cani bianchi”.

Cane bianco è il titolo di un bel romanzo di Romain Gary, e racconta una storia vera. Lo scrittore cosmopolita – che nei tardi anni Sessanta si è trasferito a Beverly Hills – accoglie in casa un cane trovatello. Batka, questo il suo nome, è affettuoso e tranquillo con tutti. Ma ecco che di fronte a un nero, e Los Angeles è piena di neri, l’animale si trasforma in un killer, un mostro omicida.

«Quel cane – spiega infine un esperto – fin da cucciolo è stato appositamente addestrato per attaccare i neri. Li chiamano “cani bianchi”, e le assicuro che non me lo sto inventando. Ogni volta che un nero si avvicina alla porta, lui diventa una furia. Con i bianchi invece niente: scodinzola e porge la zampa».

Ma «un romanzo è un romanzo è un romanzo», come direbbe Gertrude Stein. Un romanzo, pur autobiografico, è in gran parte opera di fantasia. Altra cosa è un Paese reale, altra cosa un paese come l’Italia agli albori del terzo millennio. Una nazione di antica civiltà come la nostra saprà certo attivare gli anticorpi al razzismo. Armiamo dunque l’ottimismo della volontà, noi buonisti. Dovremo sognare e lavorare, per un tempo in cui il nero andrà di moda, come tutti i colori.

Ci dispiacerà allora per i tanti “cani bianchi” che fino a ieri sonnecchiavano e che oggi mostrano le zanne. Loro non possono guarire. «Si può curare, no?», chiede speranzoso lo scrittore all’esperto. «No», risponde lui, e una piccola scintilla beffarda gli accende lo sguardo. «Il suo cane è troppo vecchio. Quella generazione è fregata, dovrebbe saperlo»

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