LA PAROLA

Crepuscolo

C’è un punto del giorno, quando la luce declina e le ombre della notte avanzano, difficile da determinare nel tempo. Il crepuscolo – quel momento – designa un lento spartiacque, uno scivolare talvolta lungo e talvolta più rapido dalla luce al buio. Alle nostre latitudini dura circa mezz’ora ed è caratterizzato dal variare dei colori del cielo, dovuto alla diffusione e alla diffrazione dei raggi del sole, che spesso assumono i toni del rosa e del rosso. Il crepuscolo è quindi un passaggio da un mondo in cui gli oggetti hanno forme nette e ben percepibili all’oscurità che rende nere tutte le cose.

L’etimologia ci racconta che crepuscolo viene dal latino crèper, che significa buio, oscuro. Di fatto il crepuscolo identifica quel momento in cui il sole è ancora sotto all’orizzonte o vi appena sceso, in cui ancora se ne percepisce l’effetto luminoso. Quindi: l’alba e il tramonto. Ma la parola ha poi finito con l’identificare soltanto il fenomeno serale oppure, in senso figurato, qualcosa al declino, alla fine del proprio percorso. Il crepuscolo della vita, per esempio, indica gli ultimi anni dell’esistenza.

Secondo il Dizionario etimologico della lingua italiana di Cortelazzo e Zolli (Zanichelli), il termine iniziò a essere utilizzato con il significato odierno di tramonto, fase declinante, soltanto dopo l’apparizione e il grande successo di Il crepuscolo degli dei (in tedesco Götterdämmerung, espressione che nella mitologia nordica indica la fine del mondo) di Richard Wagner, rappresentato per la prima volta a Bayreuth nel 1876 e tradotto in italiano solo nel 1883. È quest’ultima data che segna l’utilizzo della parola crepuscolo nel senso di tramonto.

Si tratta di un momento che varia con le stagioni (solo all’equatore la durata è pressoché costante, mentre più è elevata la latitudine e maggiore è la durata del crepuscolo) e che non ha solo connotazioni romantiche, ma anche civili; per esempio è il momento in cui si devono spegnere o accendere i lampioni nelle strade e utilizzare i fari dei veicoli. Esiste anche il crepuscolo nautico, una convenzione che si basa sulla posizione del sole (tra -6° e -12° dall’orizzonte), importante perché è il momento in cui si vedono sia l’orizzonte sia le stelle principali ed è quindi facile per chi naviga stabilire la propria collocazione geografica. Il cosiddetto crepuscolo astronomico varia, invece, da -12° a -18° sotto la linea dell’orizzonte, punto oltre il quale è totalmente buio ed è possibile distinguere a occhio nudo tutte le stelle.

Nei circoli polari il crepuscolo può essere una costante per settimane. Il suo effetto sull’organismo umano – positivo alle nostre latitudini quando si ammira la fugacità di un bel tramonto – può essere negativo nei luoghi dove si verifica la notte polare e provocare depressione o altri disturbi psichici.

Con l’aggettivo crepuscolare venne definito un gruppo di poeti del primo Novecento che, in opposizione al dannunzianesimo imperante, si espressero in maniera sommessa e quasi dimessa. L’espressione fu coniata nel 1910 dal critico Giuseppe Antonio Borgese in una recensione su “La Stampa” e il movimento letterario vide tra i suoi maggiori esponenti Marino Moretti, Corrado Govoni, Guido Gozzano, Aldo Palazzeschi e Sergio Corazzini.

In realtà la parola crepuscolo aveva avuto una stagione letteraria pre-wagneriana durante tutto l’Ottocento. Dopo la raccolta I canti del crepuscolo di Victor Hugo, pubblicata nel 1835, il termine ebbe successo presso molti protagonisti del Romanticismo tra Francia e Italia. Ancora, a inizio Novecento, lo troviamo tra le tematiche di Dino Campana, per il quale è la semioscurità che rappresenta lo sperdimento tra sogno e veglia: «[…] La luce del crepuscolo si attenua:/ Inquieti spiriti sia dolce la tenebra/ Al cuore che non ama più» (da “Il canto della tenebra”, in Canti orfici, 1913).

Eppure crepuscolo è una parola forte perché indica una cesura, seppure lieve e ammorbidita nel suo protrarsi. Vengono in mente i versi di “Io sono una forza del passato” di Pier Paolo Pasolini (da Poesia in forma di rosa, 1964), là dove dice: «[…] O guardo i crepuscoli, le mattine/ su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo/ come i primi atti della Dopostoria,/ cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,/ dall’orlo estremo di qualche età/ sepolta. Mostruoso è chi è nato/ dalle viscere di una donna morta./ E io, feto adulto, mi aggiro/più moderno d’ogni moderno/ a cercare i fratelli che non sono più».

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