LINA SENSERINI
Questa parola ha un significato dirompente: letteralmente downshifting vuol dire “scalare marcia”, ma da un paio di decenni è diventata sinonimo di rallentare, cambiare stile di vita per sceglierne uno «meno faticoso e più gratificante, con una maggiore disponibilità di tempo libero, attuata riducendo volontariamente il tempo e l’impegno dedicati all’attività professionale, con conseguente rinuncia a una carriera economicamente soddisfacente», si legge su Google.
Una rivoluzione cui sono stati dedicati libri, studi e ricerche, che è dilagata e sta dilagando come una moda (più o meno scomoda) decimando le file di manager e dirigenti di vario titolo, in aziende più o meno grandi. Il logorio della vita moderna, protagonista di una celebre pubblicità degli anni Settanta, quando ancora il bello aveva da venire e il suddetto logorio passava con un bicchierino di amaro, a un certo punto diventa insopportabile. Tanto da indurre professionisti strapagati a mollare la vecchia vita, il lavoro, lo status e il benessere per una totale e irreversibile inversione di marcia.
Lo scrittore Simone Perotti, che al downshifting ha dedicato un libro, Adesso basta. Lasciare il lavoro e cambiare vita, edito da Chiarelettere nel 2009, ne fa un credo e il suo testo, infatti, è arrivato alla -esima edizione.
Il termine è stato usato per la prima volta nel 1994 dal Trends Research Institute di New York per indicare il comportamento di persone che rinunciavano a una parte consistente dello stipendio in cambio di maggior tempo a disposizione. Oggi è anche una voce del New Oxford Dictionary, secondo il quale downshifting significa «scambiare una carriera economicamente soddisfacente ma stressante con uno stile di vita meno faticoso e meno retribuito ma più gratificante dal punto di vista personale».
E c’è anche un pioniere dello scalare marcia, Robert B. Reich, ministro del Lavoro durante la prima presidenza Clinton, che si dimise dall’incarico per passare più tempo con la famiglia.
Wikipedia, addirittura, usa un sottotitolo per definire questa parola: “semplicità volontaria”, o meglio «la parte di diverse figure di lavoratori (…) di giungere a una libera, volontaria e consapevole autoriduzione del salario, bilanciata da un minore impegno in termini di ore dedicate alla attività professionali, in maniera tale da godere di maggiore tempo libero».
Un vero e proprio fenomeno, che è partito – manco a dirlo – nei paesi anglosassoni e in Australia, dove ha preso il nome di sea-changing, in riferimento a una serie televisiva, dal titolo Sea Change, in cui la protagonista decide di lasciare un lavoro strapagato, per una vita più semplice.
La società londinese di ricerca Datamonitor, nel 2007 aveva calcolato in 16 milioni il numero di downshifter nei Paesi avanzati del mondo. Oggi si dice che siano almeno 30 milioni e l’interesse per questa nuova filosofia di vita è in crescita. Basta, ad esempio, andare su internet digitare la parola sul motore di ricerca et voilà, pagine e pagine di link ad articoli, libri, siti, blog, eccetera in cui si trova di tutto: riflessioni serie, accanto a facili consigli, ricerche statistiche e manuali del perfetto downshifter.
Ma attenzione, come molte delle mode “new age style”, anche il downshifting non è per tutti: intanto se c’è da pagare un mutuo o mantenere una famiglia, in assenza di rendite che possano far rinunciare allo stipendio o a una parte di esso, meglio restare al lavoro. Poi l’impiego va lasciato volontariamente e magari dopo aver messo da parte una bella somma che consenta di scalare marcia senza danni. È vero il downshifter deve essere in grado di rinunciare allo status, al lusso e ai suoi simboli, ma se si può fare benissimo a meno di una borsa di Gucci, in cambio di più tempo libero, è perché prima si è avuto abbastanza denaro per potersela permettere. Insomma, un esodato, un cassintegrato, chi viene licenziato o si ritrova senza contratto e magari tiene famiglia, non è certamente il prototipo del downshifter.
E alla fine comunque, ben venga la lentezza, perché, come ha scritto Milan Kundera nell’omonimo libro, «il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio».