Secondo John Grisham «i romanzi rifiutati dagli editori sono brutti». E che dire, allora, di Beckett e Orwell? Di Le Carré e Agatha Christie. Per non parlare del libro “rifiutato” dello stesso scrittore americano…
PIER MARIO FASANOTTI
È più che un sospetto: John Grisham, autore di milioni di libri venduti in tutto il mondo, è uno sciocco? Non mi permetterei mai di insultarlo in questo modo. O usare giudizi più pesanti. Il problema è un altro: ignora l’esperienza di molti narratori, compreso se stesso. Nell’inserto culturale di un quotidiano a forte tiratura nazionale, l’americano (nato nel 1955) dell’Arkansas ha rilasciato una lunga intervista. L’ultimo suo pronunciamento è secco, al limite dell’ottusità: «Se un editore rifiuta un romanzo vuol dire che il romanzo non funziona». È noto che gli scrittori americani, salvo rare e splendide eccezioni, conoscono la cultura europea a spanne, molto a spanne. L’aggravante, nel caso specifico, è che Grisham ha visto rifiutato da diversi editor il suo romanzo Time to Kill. Gli andò decisamente meglio con altri quaranta, dai quali una decina sono stati resi film o serie televisive. Il periodico Usa Publisher Weekly, rivista statunitense nata nel 1940, lo ha infilato nella lista dei grandi autori. Questo tipo di recensione prende in considerazione i best-sellers o comunque storie poliziesche o di spionaggio. E snobba testi di alta qualità (business is business…).
Ho accennato all’«ignoranza» storica dell’autore de Il socio, Il rapporto Pelican, tanto per citare due tra i più famosi. Grisham ha iniziato la sua carriera come avvocato, poi lasciò definitivamente le aule dei tribunali. Nei momenti liberi o durante i suoi tragitti in treno, non smise mai di appuntarsi idee e trame nel suo diario. È stata un’ottima scelta a favore della sua prolificità. Rimane il fatto che, una volta ottenuto il successo mondiale, si è dimenticato dei meccanismi editoriali. A lui bastava inviare il dattiloscritto al suo editore, e il gioco era fatto. Sarebbe stato cretino un editore che glielo rimandasse per posta con una garbata scritta di rifiuto.
Di bocciati ce ne sono stati tanti, anche chi poi fu insignito dal Premio Nobel. Per esempio Samuel Beckett (Dublino, 1906). Il grande drammaturgo scrisse un romanzo che non venne preso in considerazione. Trasferitosi a Parigi (era perfettamente padrone della lingua), sua moglie Suzanne con una tenacia formidabile cercò di convincere gli editori. Pare addirittura che li pedinasse. Uno di essi le rispose: «Sa che cosa dovrebbe fare? Scavare una profondissima buca e seppellire una volta per tutte il libro di suo marito». Beckett ottenne il Nobel nel 1969.
Che dire poi di Anna Frank, la ragazza che viveva in una Amsterdam occupata dai nazisti? Quindici editori respinsero il suo Diario. Tra quei quindici, uno espresse un parere idiota: «La giovane, secondo me, non sembra avere quel sentimento speciale che innalzi il libro al di sopra della semplice curiosità». È arcinoto anche ai più inossidabili non lettori che il Diario di Anna Frank è venduto in tutto il mondo. E lo è anche ai giorni nostri. Moltissimi docenti lo pongono nella lista dei libri “da leggere”, come se fosse un testo scolastico.
Agatha Christie per oltre quattro anni fece anticamera da editori di periodici offrendo i suoi racconti. Poi il successo, con oltre quattro milioni di libri. Un’altra donna testarda, J.K. Rowling, inventrice della saga di Harry Potter scriveva in un pub con accanto la figlia. Scelse un agente letterario che si chiamava Little (forse fu questo nome ad attrarla), il quale le spianò la via della notorietà e anche della straordinaria ricchezza (riuscì a comprare un antico castello).
Non è così poi tanto diffuso il (cosiddetto) fiuto degli editori. John Le Carré mandò il suo La spia che venne dal freddo. Silenzio. L’editore, o per perplessità o solo per avere una conferma o per scherzo, inviò quella formidabile spy-story a un suo collega. Assieme a un bigliettino dove aveva scritto «Ti presento Le Carré, non avrà alcun futuro». Ci furono poi rifiuti che scattarono dall’esame della scrittura. E’ Il caso di Rudyard Kipling, famoso autore de Il libro della giungla. Perché il testo fu scartato? Ecco la motivazione: «Mi dispiace signor Kipling, ma lei non sa usare la lingua inglese». Esilarante il giudizio negativo su La fattoria degli animali di George Orwell: «Ma come può pensare che siano vendibili le storia sugli animali negli Stati Uniti?». Il ragionamento è contorto per non dire altro se badiamo alla specificazione “negli Stati Uniti?“. Non mi risulta che gli americani si scandalizzino dinanzi a maiali, buoi e vacche. Come si sa è il popolo meno vegetariano del pianeta.
Si potrebbe continuare. Resta una considerazione: il giornalista (si noti: culturale) non si è peritato di fare spiegare meglio a Grisham il suo drastico assioma? Bastava un paragrafo in più, e magari l’americano poteva fare una miglior figura.