LA PAROLA

Fatica

Ne Il rifiuto – un delizioso ed istruttivo libretto (un pamphlet si direbbe), uscito esattamente quarant’anni fa, nel 1978, quello dell’omicidio di Moro, 10 dopo il mitico ’68 – Giuliano Toraldo di Francia, scienziato ed epistemologo che ho avuto la fortuna di conoscere ed intervistare nel 1988 – La scienza è innocente s’intitolava quando uscì nella pagina della scienza de “l’Unità” il 30 luglio di quell’anno e l’ho riproposta nel volume di tessere Appropriazione indebita intitolandola Distinzioni apocalittiche che la si può leggere anche nel mio blog personale – scriveva a proposito della fatica:

«Ogni operazione che compie un animale, in particolare l’uomo richiede energia. E la natura è avara di energia. Bisogna procacciarsela con grande difficoltà, bisogna immagazzinarla, risparmiarla. Per indurci a risparmiarla la natura ci ha dotati di una speciale sensazione: la fatica. La fatica è una vera e propria forma di sofferenza e come tutte le sofferenze ha la funzione di dissuaderci da qualcosa. Ci dissuade dal buttar via energia. Quanta fatica hanno fatto nei millenni gli uomini per spostarsi da un luogo all’altro! Quanto hanno camminato! Milioni e milioni di chilometri, sudando, consumando le articolazioni, rovinandosi i piedi […]. Il camminare era una fatica, una sofferenza. Bisognava evitarla tutte le volte che si poteva, per pure ragioni di sopravvivenza […]. La domesticazione del cavallo, dell’asino, del bue e del cammello furono una benedizione. Che idea geniale! Sfruttare altri esseri viventi e far fare fatica a loro. Se crepavano quelli, pazienza».

Quando lo lessi compresi che la fatica è qualcosa di molto simile alla spia dell’olio che si accende nel cruscotto dell’auto per dirci che qualcosa non va nel motore, è opportuno fermarsi e controllare.

Non che la fatica mi stesse simpatica, né che lo sia diventata dopo quella lettura, ma l’obiettività di tale constatazione, quel freddo enunciato che solo uno scienziato com’era anche Primo Levi può fare, mi ha indotto a far tesoro dell’insegnamento: se sei stanco ed affaticato, meglio prendere fiato, sostare e riposarsi.

Cosa che sa chiunque vada in montagna, quantunque sappia altrettanto bene che indugiare nell’indolenza è quanto di più pernicioso ci si possa augurare.

Gli studi condotti dai medici fin dall’epoca in cui si rendeva onore ad Esculapio, hanno evidenziato – e questo è il significato che ne dà l’Enciclopedia Treccani – che la fatica è «l’esaurimento, per abnorme consumo e mancata reintegrazione, delle sostanze necessarie ai processi biochimici cui è legata l’attività specifica dell’organo, in un inadeguato apporto di ossigeno e nel conseguente accumulo di cataboliti, che di solito vengono degradati e allontanati».

Perciò si dice fatica lo «sforzo che si fa per compiere un lavoro o svolgere un’attività impegnativa», indicando con essa l’eccesso di lavoro che «provoca una diminuzione delle capacità funzionali dei vari organi e tessuti e della loro eccitabilità».

«Nel caso particolare della fatica muscolare, indotta da sforzi prolungati o violenti e ripetuti – precisa la Treccani –, oltre all’esaurimento dell’acido adenosintrifosforico a livello dei muscoli, si verifica un impoverimento di ossigeno nell’intero organismo, che è causa di una sofferenza generale».

Ossigeno, dunque, e perciò respirazione, così come chimica e perciò materia; ma d’altra parte energia e perciò fisica. Ed anche un po’ di politica se si pensa che, semplificando all’osso i ragionamenti di Karl Marx, si potrebbe dire che il mondo, anziché in classi, si divide in quanti la fatica la fanno e quanti invece la fanno fare agli altri, magari ai somari.

E tuttavia, proprio come sembra insegnarci Toraldo di Francia, quello sforzo è inevitabile ed altrettanto vitale, in qualche maniera irrinunciabile per scelta. Ed ora, essendo io stanco ed affaticato, un po’ come Sisifo sui pendii presumo del Caucaso, mi fermo e mi riposo, così come voi che avete appena letto.

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