* MEMORIE

Il primo ricordo de “l’Unità”. Quello di Beppe Ceretti

Gerardo Chiaromonte

Nel non facile tentativo di chiudere l’associazione Sotto la Mole (qui è possibile leggere l’atto costitutivo e lo Statuto) che insieme a Silvia Garambois e a Serena Bersani ho fondato nel 2016 stipulando un accordo con l’Istituto Gramsci (qui è possibile leggerlo) per la conservazione di materiale relativo alla storia de “l’Unità” e delle altre testate legate al Partito comunista italiano (“Rinascita”, “Anteprima”, “Mattina”, “Diario”, “Tango”, “Cuore”, “La città futura”, “Noi donne”, “Vie nuove”, “Politica e società”, ecc.) ho auspicato che i miei colleghi scrivano o registrino i loro ricordi, aneddoti, opinioni, anche pettegolezzi se occorre, ma a mio giudizio tutto utile a ricostruire davvero, nel bene e nel male, la storia di quell’esperienza consegnando anche tutto questo materiale scritto o sonoro o in video per chi lo sa fare all’Istituto Gramsci di Bologna dove già è stato gentilmente accolto molto materiale documentale donato da ex colleghi e compagni.

Parlando di questo a Beppe Ceretti mi ha prontamente e gentilmente inviato questo testo che intanto pubblico qui. Non sarà comunque TESSERE il luogo dove come io spero verranno raccolti altri ricordi.

Daniele Pugliese

 

Amarcord Unità

di Giuseppe Ceretti

Visti da vicino

“ma ‘stu Inwinkl
che diavolo è?”

Gerardo Chiaromonte
Eccolo il burocrate della destra del partito.
Il pregiudizio, nel senso letterale del termine, non conosce ostacoli. Come l’umana stupidità. La mia.
Ma questo pensiero non mi sfiorava quando nel 1986 Chiaromonte venne nominato alla direzione dell’Unità.

In quel clima (oggi è forse mutato?) ogni dirigente del Pci occupava la casella di quel domino che non ha mai conosciuto attimi di pausa.
Destra, sinistra, centro. Mozione uno, mozione due, tre e così via.
Quindi benvenuto sia il nuovo direttore, a denti stretti.

Già nei primi mesi del suo mandato, mi colpì tuttavia l’estrema attenzione che manifestava nelle riunioni del giornale, non solo per il peso politico delle notizie quotidiane. Ancor più mi coinvolse la sua istintiva e per nulla ruffiana giovialità che non aveva nulla di preordinato. Tutto era fuorché una captatio benevolentiae di una redazione che pure non gli era favorevole; anzi. Come lui ben sapeva, prima ancora di mettervi piede. Era piuttosto un tratto caratteriale, come ebbi modo di capire più avanti.

Lo incuriosiva il gergo giornalistico di cui era a digiuno: nulla di particolare, ma utile quando si manipolano occhielli e sommari o titoli d’apertura, di spalla, di taglio centro o basso e via praticando.

Fu così che proseguì per lungo tempo il suo silente apprendistato. Che ruppe un giorno quando sentì dire da uno di noi “e poi c’è sempre l’Inwinkl”.

Quella parola l’aveva già sentita da due o tre mattinate, senza battere ciglio. Ma non seppe resistere: “Sentite un po’- interruppe- ho capito che cos’è un titolo, un occhiello, un sommario e vari tagli, aperture, spalle, mannaggia a voi, ma ‘stu Inwinkl che diavolo è?”. Non disse “diavolo” a dire il vero, ma tanto basta.

Fu così che gli venne spiegato che Inwinkl non era altro che il cognome di un bravo e duttile collega di Trieste e che di nome faceva Fabio, che tra l’altro spesso era pronto a venire a Roma a dare una mano per il lavoro redazionale. Un suo scritto era in calendario da tempo, ma la pubblicazione era slittata di giorno in giorno per il carattere di non urgenza.

Reagì con una sonora risata con imbarazzate scuse a Fabio (l’Inwinkl in questione) per lo sfottò involontario, determinato dalla pioggia di consonanti a corredo della sua identità.

L’episodio che induce al sorriso è la cartina di tornasole per testimoniare quanto la sua direzione fu improntata alla stima e fiducia nei confronti della redazione, anche quando gli scogli erano ben più ostici del rebus linguistico sul caro Fabio Inwinkl.

Così fu quando il 24 febbraio del 1988 pubblicammo, a sua insaputa e in sua assenza, nella seconda pagina del giornale dedicata ai commenti, un testo dello storico e deputato del Pci Umberto Cardia che formulava interrogativi sulle ultime ore del fondatore del Pci: “Fu fatto tutto per salvare Gramsci?”.
La questione era stata più volte proposta in sede storica e due mesi prima lo stesso Cardia aveva scritto un articolo di tono identico su Rinascita sarda, il mensile del Pci dell’isola, ma fu subito evidente il diverso e prorompente impatto provocato dalla pubblicazione dell’Unità.

Ebbene, se è vero che Chiaromonte si dissociò dal contenuto dello scritto del deputato del suo partito, mai raccontò pubblicamente della genesi di quella decisione. E a noi manifestò la sua delusione per aver tradito la sua fiducia. Poi toccò a lui affrontare la grana in sede di partito.

Si parva licet, mi sento in obbligo di testimoniare la profonda umanità di un direttore che sapeva prestare ascolto anche ai problemi personali. Certo l’ultimo da sospettare, in apparenza, quale traduttore dell’assioma “il personale è politico”.

Ma si sa che le apparenze ingannano. Come quella domenica mattina d’estate che si presentò in redazione dopo un rigenerante bagno nella vicina piscina pubblica, in infradito acquose e rumoreggianti e maglietta. Un inedito assoluto, per l‘epoca.

Dopo la sua morte venni a sapere che era stato sepolto accanto a Carlo Fermariello, suo grande amico. Ne sono lieto. Sì, proprio il Fermariello che interpretò il consigliere d’opposizione De Vita che denunciava il sacco di Napoli nel film “Le mani sulla città” di Francesco Rosi.

De Vita (o Fermariello?), ci raccontò poi Chiaromonte, era solito accompagnare il suo eloquio nelle sedute consiliari con ampi e plateali gesti. Tra questi il lancio di un paio di occhiali, scena ripetuta più volte. “Perché lo fai? -gli chiese- gli occhiali costano”. E quello: “A Gera’ chiste so’nummere” mostrandogli il paio di occhiali finti che teneva in tasca pronti all’uso.