Con la parola Intifada (letteralmente rivolta), inizia la collaborazione a TESSERE di una prestigiosa firma del giornalismo italiano: Flavio Fusi, giornalista di lungo corso, volto noto del Tg3 come corrispondente da New York e Buenos Aires, conduttore e commentatore in studio del telegiornale Rai, inviato in tutte le più importanti crisi internazionali. Formatosi a “l’Unità”, è autore di Terra non guerra (Edizioni associate, 1986), Campi di fragole per sempre (Effigi Edizioni, 2016), Cronache infedeli (Voland Editore, 2017). Di se stesso dice: «Non ha mai vinto premi giornalistici e non appartiene a nessuna scuderia professionale». Benvenuto a bordo.
«Il mio popolo saprà resistere. Ma oggi davvero sembra tutto contro di noi…». La voce di Yunis, che telefona da Gerusalemme Est, non riesce a nascondere una amara stanchezza. La decisione di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele è calata come un colpo di maglio sulle residue illusioni dei palestinesi. Un sipario che si chiude brutalmente sulla scarna scena del dialogo, della trattativa, del confronto politico internazionale. Ma oggi, più che la rabbia, domina la stanchezza: così la terza Intifada, lanciata da Gaza ai territori occupati rischia di passare alla storia come l’Intifada della disperazione.
Ricordiamo: nel lontano 1987, la prima Intifada (rivolta) fu quella dei sassi: le pietre che i giovani palestinesi scagliavano strada per strada contro le forze di difesa israeliane in assetto di guerra. Il grido di rabbia e di dolore lanciato dal campo profughi di Jabaliya ben presto si estese in tutta la regione, attraversò Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est. Quella tragica epopea durò oltre sei anni e costò la vita ad oltre mille palestinesi uccisi dai coloni e dai soldati israeliani, ma ebbe il merito di mettere sotto gli occhi del mondo la terribile realtà dei territori arabi occupati.
Negli anni del nostro scontento, di fronte al fallimento di ogni gesto di pace, abbiamo poi conosciuto una seconda intifada. L’Intifada dei coltelli è figlia della delusione di un popolo intero e della resa di una ignava generazione di politici che negli anni si sono cimentati con l’inestricabile matassa del conflitto arabo-israeliano.
Il giovane palestinese che per le strade di Gerusalemme accoltella il soldato israeliano o il turista innocente, la deriva terroristica di una resistenza fiaccata, non sono altro che la risposta cieca alle sconfitte e alle ipocrisie della grande politica. In realtà, fin dalla lontana conferenza di Madrid, nell’ottobre del 1991, i tentativi di composizione della crisi mediorientale sono stati non altro che il trionfo dell’ipocrisia. Una arida stagione di ipocrisia lunga quasi trenta anni, un esercizio funambolico di formule vuote, e insieme lo sprezzo per la vita di centinaia di migliaia di persone.
All’ombra di questa feroce ipocrisia si sono commessi crimini e misfatti, si sono spinti i palestinesi verso la deriva confessionale ed estremistica, si è rubato terra e acqua, si sono alzati muri e si è perfezionato un pervasivo sistema di oppressione e di apartheid.
Oggi Donald Trump ha finalmente messo la spada sul piatto della bilancia. Quest’uomo rozzo e ignaro di storia e di politica, questo narciso settantenne che gli americani hanno avuto la sventura di eleggere come loro presidente, ha il merito di aver strappato brutalmente il velo dell’ipocrisia che per decenni ha confuso vittime e oppressori. Il re è nudo, finalmente!
È toccato poi al comprimario Netanyahu spacciare questo atto di violenta arroganza come passo verso la pace, nella sua tempestiva e accidentata missione a Parigi e a Bruxelles.
Vince la spada, vince la forza. Del resto sul palcoscenico internazionale si aggirano ormai mezze figure e leaders brutali, e nessun vero statista è all’orizzonte. Dal fatuo The Donald, allo “sceriffo cattivo” Bibi Netanyahu, dal flebile e tremebondo Abu Mazen ai truci esponenti di Hamas, il proscenio è affollato di pericolosi dilettanti. E la parola pace, per decenza, dovrebbe essere bandita dai prossimi tentativi di intorbidare le acque e spacciare per “dialogo” la guerra e l’accanimento dei forti contro i deboli.
La tragedia palestinese, forse tutta la vicenda araba moderna, resta inchiodata a parole chiave e simboli nefasti. Altro non è, ad esempio, la Nakba (catastrofe) che ricorda a milioni di arabi l’esodo e l’espulsione di oltre 700mila palestinesi costretti ad abbandonare campagne, villaggi e città al termine della guerra arabo-israeliana del 1948. Fu quello l’atto fondativo dello Stato di Israele e l’inizio delle peregrinazioni di un intero popolo.
Da allora, il 15 maggio di ogni anno migliaia di palestinesi scendono in strada mostrando le chiavi delle loro antiche case, che non esistono più, e rivendicano un inutile diritto al ritorno, che nessuno è più disposto a promettere. Così sarà per questa nuova intifada della disperazione. A Washington il presidente americano ha proclamato il primato della forza, e in questa sfortunata parte del mondo, da Gaza alla Cisgiordania, gli uomini di buona volontà protesteranno, urleranno, sfideranno per strada la morte, ma saranno obbligati a inchinarsi.