Stimolato dalla notizia del ritrovamento in un cassonetto a Roma, nel quartiere Parioli, di due gambe di donna presumibilmente tagliati a colpi d’ascia, il direttore di TESSERE, Daniele Pugliese, ha pubblicato nel suo blog, Guardare negli occhi l’assurdo, un racconto, compreso in una raccolta non ancora pubblicata, che ha scritto nell’ottobre del 1997, prendendo spunto da un fatto di cronaca avvenuto a Reggio Emilia alla fine degli anni Novanta a cui “Mattina”, il quotidiano locale distribuito insieme a “l’Unità” di cui era vicedirettore, dette ampio spazio. Si intitola La gamba.
La gamba
Era il miglior cronista che avevo. Gavetta in un giornale locale. L’avevo seguito a distanza quand’era lì. Preciso. Essenziale. Completo. E, soprattutto, fantasioso.
Infarciva le notizie con descrizioni stralunate, a volte gotiche, spesso fantastiche. Particolari che non stravolgevano la realtà dei fatti, ma che ipotizzavano cause, decorsi, svolgimenti romanzeschi e proprio per questo ancor più credibili e veritieri.
Diceva: «Di cosa credete che si siano nutriti gli scrittori se non di fatti e notizie».
Anche lui pescava da lì, aggiungendo sempre qualcosa che il riscontro oggettivo non testimoniava, ma che la logica e la conoscenza delle vicende umane facevano trasparire in sottofondo.
Un giorno lo pescai mentre diceva ad una collega in un corridoio: «Faccio questo lavoro perché si guadagna di più a scrivere tante piccole storie che un unico romanzo».
Lo guardai bieco ma feci finta di non aver sentito. Era quello che volevo, ma non potevo farglielo sapere. Temevo che si sarebbe montato la testa. Che prima o poi, magari, si sarebbe dato ai romanzi. E che potesse cominciare a selezionare lui, e non io, quali erano le notizie con un cuore letterario.
Non lo avrei accettato. Il gioco funzionava se ero io a imporgli i terreni da esplorare con le sue ali da farfalla. Volevo che continuasse, come aveva fatto quando era in quel piccolo giornale di provincia, a trovare dello straordinario anche negli avvenimenti più minimi. A immaginare architetture bizantine anche nel più piatto e banale avvenimento di cronaca.
Per lui un funerale non era un funerale, ma un fiume più o meno grande di abiti colorati. Poteva essere nero – e lo era il più delle volte –, ma anche bianco, come quando seppellirono due bambini violentati e uccisi da un uomo che aveva confuso l’amore con il dominio. Non lo chiamò mai pedofilo: scriveva «l’uomo confuso», e l’orrore di quella confusione non scaturiva dagli aggettivi usati per descrivere l’assassino, ma dal contrasto tra il gioco dei bambini e quello dell’adulto.
Poteva essere bianco, ma anche giallo. Sì, notò il giallo in una cerimonia funebre per dare l’addio ad un mecenate dell’industria, ammazzato nella sua auto a pochi metri da casa: così vestiva una donna che avrebbe potuto essere la sua amante. Ma lui non la chiamò mai così: solo la «donna in giallo», come le rose che il giorno prima di essere ucciso l’uomo aveva regalato a sua moglie. Di lei scrisse solo che ai poliziotti aveva raccontato di aver atteso invano quella notte il rientro di suo marito. «Invano, come tante altre sere» le strappò tra una lacrima e uno sguardo d’odio, mentre la bara procedeva verso il camposanto, pochi minuti prima che la arrestassero, al termine della funzione religiosa.
La storia era banale, ma non come lui la raccontò. E poi mi chiedo se era davvero così banale. Mi eccitavo in qualche maniera quando sentivo che era successo qualcosa. Allora lo chiamavo. Gli spiegavo cos’era accaduto, i tratti essenziali della notizia, le prime informazioni raccolte dai corrispondenti o dalle agenzie di stampa. E gli dicevo di andare a seguire quel fatto e di raccontarlo come meglio poteva per i nostri lettori. Lui partiva e una cert’ora l’articolo arrivava sulla mia scrivania. La storia non era mai solo quella che io gli avevo riferito. Un intrigo si dipanava da quelle righe messe una in fila all’altra. E avevo la sensazione di leggere di qualcosa avvenuto per la prima volta da quando l’uomo è comparso sulla Terra. Un avvenimento assolutamente inusuale, eccezionale, capace di resistere nella memoria per chi sa quanto tempo, data la sua totale eccentricità.
E invece erano sempre e solo storie del tutto ordinarie. Ripetevano copioni già scritti, ricordavano avvenimenti già accaduti, seguivano schemi codificati nel tempo e per ognuno dei quali era stata inserita una cartella nell’ipotetico sterminato schedario delle vicende umane.
Oggi lo ricordo perché sono trascorsi dodici mesi dalla sua morte. E non ho voluto, in questo tempo, aprire il mio cuore neanche per un istante. Non l’ho fatto con mia moglie, figuriamoci con i colleghi o con i ragazzi della mia squadra. È stato il direttore a scrivere, un anno fa, il necrologio, a ricordare le doti di Mario. Pezzo ineccepibile, non c’è che dire. Pieno di umanità e di sincero dolore. Ma sono rimaste in ombra le doti profonde di quel ragazzo.
Sono passati 365 giorni e io so quante volte avrei potuto spedirlo a raccontarci con la sua febbricitante astrazione miserie umane e orribili accadimenti. Ognuno di essi sarebbe diventato un paradosso dell’esistenza umana, un contrasto insanabile di spinte contrapposte, una smagliatura nel senso comune della vita, un neo spuntato sul bianco volto di questa terra.
Lenisce il mio dolore il ricordo di quando mi confidò uno dei suoi più vivi desideri.
*
«Succederà un giorno…», borbottò una sera riordinandosi la scrivania.
Eravamo rimasti solo noi due. Io sono sempre l’ultimo ad andare via e quella volta lui era di turno in redazione. Il giornale era già chiuso ed avevamo fatto anche un paio di ribattute per inserire in corsa alcune notizie arrivate all’ultimo minuto.
«Cosa?» gli chiesi mentre mi infilavo il cappotto.
«Oh, niente, pensavo tra di me…»
«Cosa?» ripetei cercandomi una ragione per restare ancora un po’. Avevo finito e come tutte le sere non mi restava altro che andare a mangiare nell’unica trattoria aperta a quell’ora di notte. Avrei ordinato uno dei soliti tre o quattro piatti che con monotonia alternavo nelle mie solitarie cene, e alla fine avrei chiesto un bicchiere di grappa, poi un altro e un altro ancora, osservando le gambe delle ragazze che entravano in quel rifugio di attori e teatranti, di amanti tardivi, di poliziotti esausti, di ombre della notte e scambiando qualche parola sempre più ripetitiva con il padrone del locale. L’ultima acquavite avrebbe cancellato i loro volti e quei corpi e mi avrebbe sprofondato in un sonno breve ma intenso che avrebbero interrotto le notizie trasmesse dalla radio alle 8 e dopo di quelle, i titoli sui giornali, e via subito uno sguardo alle agenzie, per sapere gli ultimi avvenimenti. Un orologio scandito da fatti sintetizzati in poche righe.
«Ti prego Mario», pensai quella notte, «dimmi cosa sta passando nella tua testa, strappami all’agghiacciante silenzio che sta per avvolgermi, a questa affascinante missione a cui mi sono votato, all’ossessiva inutilità, priva di significati capaci di resistere più di 24 ore, a cui mi sono concesso, senza riserve, senza alternative, senza motivazioni».
Sembrò sentirmi, benché non avessi detto una sola parola.
«Stavo pensando che succederà, prima o poi». Si sedette su una poltrona piazzata davanti all’ingresso della mia stanza, sbuffò, e aggiunse: «Sa’, ho un sogno».
«Che sogno?» gli chiesi lasciando trasparire tracce della mia voglia di vivere fra le maglie del tono di voce burbero e scostante.
«Di scrivere la storia di una gamba», disse sfregando un fiammifero sulla cerniera dei blu jeans per accendersi una sigaretta.
«La storia di una gamba?», chiesi strabiliato mentre lasciavo cadere il pacco dei giornali sulla scrivania.
«Sì, la storia di una gamba. È un sacco di tempo che ce l’ho in mente, e so che succederà prima o poi». Dette una boccata profonda alla sigaretta e aggiunse: «Ne sono proprio sicuro».
«Vuoi dirmi di che si tratta?» gli domandai sfilandomi il cappotto e sedendomi nell’altra poltrona vicino a lui.
«Be’, è semplice, è la storia di una gamba. Di una gamba che non è più al suo posto. Non so esattamente che cosa succede in questa storia, so solo che la gamba non è più al suo posto e che in qualche maniera ha voglia di ricongiungersi al suo padrone, sì, insomma, al resto. Qualcosa come una calamita che, comunque sia, ha dentro di sé questa spinta all’unione.
«Non so come mi è venuta in mente questa idea e non so neanche dire perché ci penso tanto, ma ho l’impressione che abbia a che fare con le montagne. Sì, ha proprio a che fare con le montagne, quelle dove sono andato da ragazzo.
«Ero davvero un ragazzo allora. I genitori di un mio amico, che erano anche i miei vicini di casa, andavano in Trentino tutti gli anni, d’estate. Un paio di volte ci portarono pure me. Mi divertivo moltissimo. Luca ed io giocavamo tutto il giorno. Non stavamo mai fermi, giusto il tempo per mangiare e dormire.
«Eravamo una banda. Una decina di ragazzini di dieci anni circa, scatenati tutto il giorno. Per fortuna di spazio ce n’era quanto ne volevamo. Davanti alle case del paese c’era un poggio che quelli del posto chiamavano il “doss”. Credo che volesse dire il dosso, ed era proprio una gobba a ridosso dell’abitato.
«Sul “doss” avevamo costruito la nostra città. Era sugli alberi la nostra città. Prima la costruimmo, poi leggemmo Calvino. Ne attraversavamo, senza mai scendere a terra, almeno trenta. Qualcuno avevamo dovuto munirlo di corde per non interrompere il passaggio. C’era una corda per andare e una per tornare. C’era anche un ponte: un’asse di legno inchiodata fra due rami. Sobbalzava e si fletteva malgrado non pesassimo molto allora. Poi c’era il castello vero e proprio: un albero su cui avevamo costruito il quartier generale. Le assi crescevano verso l’alto a forma di triangolo, una fila fra i rami più bassi, un’altra fra quelli più in alto e poi ancora per quattro o cinque piani, sempre più larghe seguendo la chioma dell’abete. Da sotto sembravano una muraglia e avevamo dovuto costruire delle specie di scalette per poter passare da un piano all’altro perché i rami erano ingombrati dalle tavole e non potevamo più afferrarli per tirarci su e salire. Quando tornai la seconda volta, me lo ricordo, quella fortezza era ancora in piedi e sembrava inviolata come quando noi vi restavamo sopra per difenderla.
«Mi scusi, la sto annoiando con questa stupida storia, e poi non c’entra niente con la gamba».
«No, voglio che continui a raccontare, anzi senti, facciamo una cosa, se ti va. Adesso ce ne andiamo insieme a mangiare qualcosa e mentre siamo a cena finisci di raccontare e mi spieghi questa storia della gamba. Ti va?»
«La ringrazio ma non posso, sono di turno questa sera e non vorrei succedesse qualcosa…».
«Ascolta ragazzo, non succederà un bel niente stasera, me lo sento. E poi lasceremo detto a qualcuno dove possono trovarci. Dal ristorante farai un paio di telefonate per sentire se c’è qualcosa di nuovo. D’accordo?»
«Il capo è lei, è lei che deve decidere».
Presi il cappotto e gli detti una pacca su una spalla. «Naturalmente sia chiaro, pago io».
«Questo mi fa molto piacere».
*
Ordinai una carbonara, un’insalata mista con molta cipolla e un piatto di gorgonzola. Lo chiamavo il menù numero 3 e l’oste capiva esattamente cosa dicevo.
«Si esprime sempre così?» mi chiese Mario dopo aver chiesto un filetto al sangue e anche lui un’insalata mista.
«Il tuo è il numero 1, detto anche “la dieta”».
Sul tavolo c’erano già dei crostini spalmati con salse diverse. Li finimmo in un baleno, prima ancora che l’oste portasse un gran boccale di birra per Mario e una bottiglia d’acqua naturale per me.
Bevemmo insieme e io proposi un brindisi: «Alla tua gamba» dissi.
«Lei sta bene», quasi m’interruppe Mario. «Sì, in genere sta bene».
«Meglio così. Ma dimmi ora che c’entra la gamba con la montagna».
«Be’, quell’anno, quando andai in Trentino, un giorno andammo in giro con Bepi, il boscaiolo. Era un uomo corpulento che non saprei dire se ci amava o ci odiava. Una volta ci inseguì con un palo enorme che a me sembrava un tronco intero. “Mi ve maso, mi ve copo, fioi de’ na’ vaca!”, diceva. Era infuriato come una bestia.
«Avevamo dato fuoco ad un intero barattolo di caffè pieno di polvere da sparo, proprio lì sul doss. Sì, così ragazzini, già sapevamo fare la polvere da sparo. L’avevamo imparato su qualche libro tipo il “Piccolo chimico” o “Il manuale delle giovani marmotte”. Salnitro e carbonella. Insomma muri umidi raschiati e bastoncini bruciacchiati. Ora non ricordo più le proporzioni, ma allora ci riusciva benissimo.
«Sapevamo che non dovevamo farla esplodere, solo bruciare. Effetto fuochi d’artificio, non bomba. Per lo più la usavamo riempiendo diligentemente delle canne che avevamo tagliato ad ogni sezione.
«Le foravamo da una parte, al centro della membrana, con la punta del temperino. Ne avevamo sempre uno. Ognuno di noi ne aveva uno. Non si poteva essere del gruppo se non se ne aveva uno. Solo le ragazze erano esentate da quest’obbligo. I maschi no, non potevano farne a meno. Chi era costretto a nasconderlo ai genitori, lo lasciava prima di rientrare a casa in qualche ripostiglio. Qualcuno aveva anche la roncola, un coltello a scomparsa con la lama tonda, a mezza luna.
«Con i nostri coltelli tagliavamo le canne più secche dai canneti, le dividevamo in sezioni, e scavavamo quei fori. Dovevamo avere molta pazienza allora. Riempire quei tubi con la polvere da sparo richiedeva un sacco di tempo che si aggiungeva a quello già speso per produrre la polvere pirica. Noi la chiamavamo semplicemente polvere nera.
«La trasportavamo racchiusa in fogli di giornale accartocciati, dai quali strappavamo un lembo per costruire gli imbuti che ci servivano a riempire le canne. Uno stecchino ci aiutava a infilarla nel buco, si premeva, si spingeva, si spolverava, ma bisognava stare attenti a dosare la forza. Doveva essere un gesto morbido, delicato, perché la regola era chiara: la polvere pressata poteva esplodere e questo, lo sapevamo, non doveva succedere.
«Molti di noi si ricordavano quegli orribili manifesti esposti in quasi tutte le stazioni e in molte scuole, talvolta negli ambulatori pubblici quando ci portavano dal medico. Si vedeva un ragazzino disegnato forse dalla stessa persona che illustrava le copertine della “Domenica del Corriere”: aveva una mano abbondantemente fasciata e la usava per asciugarsi le lacrime, almeno così mi ricordo. Dietro al ragazzo le orribili fiamme rosse e gialle di una bomba di guerra appena esplosa e intorno le sagome di siluri o ordigni come abbandonati in un campo o per strada.
«Sì, questa era la parola che usava il manifesto: ordigni. Diceva: “attenti agli ordigni”. Poi c’era scritto qualcos’altro, in un corpo senz’altro più piccolo, ma credo che nessuno andasse a leggerlo, era sufficiente l’immagine. Si fondeva con il racconto delle persone più grandi.
«Raccontavano della loro paura quando suonavano le sirene e bisognava fuggire nei rifugi. Le sirene e i boati, quasi fossero un unico suono. Li ascoltavo a bocca aperta fra la curiosità e il terrore. Poi venivano all’oggi. “Ce ne sono ancora molte in giro – dicevano con aria grave – rimaste inesplose nel terreno, nei campi, sulle montagne, in mezzo al mare”.
«Allora si sentiva dire di trattori saltati per aria mentre aravano il campo, di barche esplose perché d’un tratto era arrivata a galla una palla nera circondata da piccoli raggi sporgenti e sbucata da chissà dove.
«La campagna contro i residuati bellici ha costellato la mia infanzia, silenziosa direi, pacata, ma costante. Era facile accorgersi che non era falsa: quante volte sono andato in campagna con mio padre e mio fratello e a ridosso di un sasso o dietro a un albero spuntava un bossolo di ottone ammaccato, talvolta ancora col proiettile acuminato infisso nella punta, senza la tacca imprecisa sul sedere della cartuccia. È strano anche questo ha a che fare con la gamba del mio sogno».
Gli versai da bere senza interromperlo. Buttò giù un po’ di birra e mi chiese di scusarlo: «Vado a telefonare alla questura per sentire se è successo niente, torno subito».
Si alzò mentre l’oste si avvicinava con la mia carbonara. Cominciai a mangiare, con la stessa voracità con cui volevo ascoltare e quando Mario tornò stavo già ripulendo il piatto dagli ultimi pezzetti di pancetta intrisa nell’uovo.
«Tutto tranquillo», disse sedendosi nuovamente a tavola.
«Bene, possiamo starcene qui a finire la nostra cena», risposi indietreggiando sulla seggiola. «Mi stavi dicendo delle bombe».
«Sì, ma non so come sono finito lì. È vero, anche quella roba ha a che fare con la gamba che cerca il suo padrone, ma l’ho capito solo mentre stavo raccontando. Quando pensavo a quei bambini deturpati dagli ordigni di guerra – qualche volta li ho anche visti in televisione o forse al cinema ai “cinegiornali”. Se li ricorda i cinegiornali?…»
Feci cenno di sì con la testa mentre giocherellavo con la forchetta sulla tovaglia.
«Ma la gamba ha a che fare col Bepi. Quella volta che bruciammo la polvere da sparo sul doss ci inseguì per tutto il paese con quel palo. “Disgrasià! Mi ve copo, mi ve maso!” sbraitava brandendo il tronco. In realtà non era successo niente, ma solo poi mi resi conto di quanto pericolosa fosse stata quell’impresa.
«Sì, eravamo dei piccoli piromani. Per questo il Bepi s’infuriò. Ma non era cattivo. Non ce l’aveva con noi. Il giorno dopo, o il giorno prima, ci portava nella stalla dove c’erano le mucche e ci regalava del latte appena munto.
«I genitori del mio amico non volevano. Dicevano che il latte appena munto, se non è stato bollito, è molto pericoloso, ma a noi piaceva e non ci è successo mai niente, anzi szampettavamo come degli scoiattoli. Quando ce lo regalava non glielo dicevamo, anche se ho sempre pensato che loro comunque lo sapessero, l’avessero capito.
«Comunque sia… un giorno che il Bepi era in buona, venne a prenderci e ci disse di seguirlo. Stavamo giocando nella piazza in mezzo al paese, dove c’era una di quelle fontane dove le donne di montagna vanno a lavare i panni e i viandanti si fermano a bere.
«Avevamo costruito con le nostre roncole e i nostri temperini delle barche intagliando le spesse cortecce degli abeti strappate a quegli alberi nella nostra città sul doss e le facevamo navigare nella fontana prima di portarle al torrente che si trovava più in basso, lontano dal paese.
«Una sorta di prova generale prima del grande viaggio lungo il fiume: quando le lasciavamo andare le inseguivamo per un po’ saltando come stambecchi sui macigni lungo il torrente finché le rive non diventavano impervie ed era impossibile andare oltre a piedi, allora le seguivamo con lo sguardo, osservando capriole e sbandamenti.
«La corrente le inghiottiva e le rilanciava verso l’alto, magari qualche metro più in basso, le faceva andare alla deriva verso anfratti scavati nella roccia, sembrava volerle dimenticare esauste addossate ad un macigno dove l’acqua si ritagliava una tregua e pareva addormentarsi perplessa come se girasse intorno a sé stessa per interrogarsi sul da farsi. E in quella pausa d’incertezza si assopivano anche i nostri scafi levigati con cura, inaffondabili più di qualsiasi altra imbarcazione, e traccheggiavano ondeggiando; poi un sussulto e le prue sembravano impennarsi e allora trovavano nuovamente la strada e ricominciavano la corsa, trascinati dai vortici, decisi a seguire il loro destino, sul quale noi fantasticavamo come popoli antichi raccolti dinanzi a un fuoco.
«Le vedevamo navigare tra pini e abeti e le gocce d’acqua che le spruzzavano per me erano lacrime di resina piante per quel distacco forzato dal bosco antico. Mi sembrava che gridassero disperati addii che il fragore delle onde e dei vortici smorzava come una tempesta che squarcia il cielo e stordisce la vita sulla terra. Impattavano sulle rocce, cercando appigli impossibili e allora quegli urti diventavano pacche festose, allegri battibecchi di animali randagi convenuti a una stessa mensa, promesse impronunciabili che quei pezzi di legno sapevano false e infingarde.
«Il mio amico le descriveva durante quel ripido tragitto nelle rapide e mi chiedeva se anch’io immaginavo i salti che avrebbero fatto incontrando le cascate a strapiombo o le piroette fra la schiuma di scoscese radure o ancora le timide ritirate in tratti stagnanti come tardivi ripensamenti di bambini che stavano crescendo in gran fretta; e allora io gli rispondevo di allungare lo sguardo e immaginarle già a valle procedere lente e impettite dove il fiume singhiozzava nauseato e imponeva di essere attraversato solo dai ponti, senza più un guado che potesse contagiarlo incerto; e ancora gli chiedevo fantasia e dicevo che se chiudeva gli occhi o li sbarrava fissando immobile quelle sagome marroni che si allontanavano dallo sguardo poteva immaginare i nostri vascelli perdersi desolati nel mare salato e errabondi naufragare come nelle storie dei pirati che leggevamo la sera prima di addormentarci.
«M’interrompeva, allora, aggrottando la fronte e come preso dalla disperazione m’interrogava: “Hai mai visto al mare una barchetta di legno navigare tra le onde?”. Luca aveva ragione, avrei dovuto dargliela già allora».
Anche Mario si corrugò e fortunatamente l’oste impedì che lo pervadesse quel turbamento. Servì il filetto e mi porse il gorgonzola, poi tornò con le insalate e chiese se volevamo che ce le condisse.
«Per me no, grazie», rispose Mario ed io lasciai che l’uomo ci lasciasse e rinunciai ad una delle mie abitudini in quel locale, farmi appunto condire l’insalata. Allungai il sale, l’olio e l’aceto verso il mio ospite e mentre lui cominciò a insaporire le verdure gli chiesi di andare avanti.
«Quel giorno il Bepi ci portò in uno dei campi dove lavorava la sua terra. Aveva una falce con sé e un bastone con la punta a V. Non aggiunse una parola finché non fummo arrivati. Poi, prima di addentrarsi tra l’erba, ci ammonì di fermarci e di non muoverci. “Ho trovato delle vipere nel campo, vado ad ammazzarle e torno, così ve le faccio vedere”, disse.
«Lo vedemmo allontanarsi e frugare con il bastone tra gli sterpi e d’un tratto innalzò la verga verso il cielo e vedemmo un serpente raggomitolato scagliato nel vuoto e quando ricadde in terra lo inseguì col suo passo pesante e lo colpì con l’asta, lo percosse come per stordirlo con una mira che a noi sembrava impossibile. Poi issò di nuovo il bastone e lo puntò con forza contro il terreno e vedemmo la coda dell’animale sbatacchiare impazzita a pochi centimetri dal Bepi.
«Lo aveva bloccato per la testa e ora poteva tenerlo immobile con una mano sola, premendo sul bastone ormai conficcato nel terreno. Con l’altra estrasse la falce dalla cintura dei pantaloni e lo vedemmo sferrare un colpo netto e deciso che fece fischiare l’aria e un istante dopo il corpo del rettile volava a mezzo metro di distanza e si divincolava come se cercasse una via di fuga, e anche la testa del serpe si divincolava e pareva imitare le mosse dell’altro pezzo, o meglio, seguirle riflesse, al contrario, il corpo a sinistra e la testa a destra, il primo verso il basso dopo che l’altro il basso l’aveva abbandonato per volgersi verso l’alto, in un susseguirsi di attorcigliamenti e torsioni talmente veloci che facevano sobbalzare l’occhio intento a fissarli, finché i due tratti non s’irrigidirono in una sorta di lenta erezione alla quale fece seguito un tracollo d’immobilità.
«Ci permise allora di avvicinarci, il Bepi, ma si raccomandò di stare attenti e di guardare dove mettevamo i piedi. Quando fummo più vicini ci rendemmo conto che quei due mozziconi non erano immobili, sembravano percorsi da uno squinternato tremore, apparentemente impercettibile.
«Il Bepi mollò la presa mentre gli si illuminavano gli occhi in volto e sul fianco della bocca gli comparivano i grandi denti bianchi. La vipera, o più precisamente la testa della vipera, ebbe un sussulto, come se reagisse a quella pressione venuta meno e lo stesso scuotimento percorse l’altro pezzo dell’animale, che ora davvero sembrava completamente privo di vita.
«Ecco – aggiunse Mario portando alla bocca l’ultimo pezzo di carne sanguinolenta rimasta nel piatto – lì credo che si sia cristallizzato il mio sogno della gamba a caccia del suo padrone…»
Io avevo già finito da un bel po’ il mio gorgonzola e inutilmente raschiavo il piatto col coltello per spalmare un altro morso di pane. Abbandonai la posata, sciacquai la bocca con un’abbondante sorsata d’acqua e prima di gettarmi sull’insalata gli chiesi perché lo chiamava sogno.
«Perché l’ho sognato molte volte», mi rispose serafico Mario. «E perché quella storia vorrei scriverla. Ma mi son ripromesso di farlo solo se accade veramente».
«Accadrà – dissi – vedrai che accadrà, e sarò io a dirti di partire, di andare, di scrivere».
«Ho sognato anche questo», ribatté Mario.
Scossi il capo in un’espressione interrogativa che non lasciava adito a dubbi.
«Sì, ho sognato anche questo», ripeté. «Non è stato molto tempo fa. Una sera sono stato da Isabella. Come tante altre volte abbiamo mangiato insieme e poi, per mollare la tensione, ci siamo buttati davanti alla tv. Adoriamo i film, ma non andiamo mai al cinema. Non ce la facciamo. Siamo troppo stanchi la sera per uscire e andare al cinema. E poi io arrivo sempre così tardi… maledetto lavoro… be’, insomma, voglio dire che noi non siamo tanto normali e che sì, ci perdiamo anche un sacco di cose che tutti gli altri fanno. E poi pretendiamo con i nostri articoli di saper raccontare quello che fa la gente… andiamo, mica ci crederà davvero?
«Comunque: quella sera abbiamo visto un film che si chiama Sciarada. C’è una battuta splendida in quel film. Audrey Hepburn chiede a Walter Matthau una sigaretta e quando lui gliel’ha offerta lei la spezza e dice ”Non li sopporto questi filtri, è come bere il caffè con la cannuccia”. Mi fa venire in mente la battuta di un portuale livornese che fumava solo nazionali senza filtro perché, diceva, certe cose non si fanno se lei tiene indosso le mutandine. Ma la scena che mi ha colpito di più è quando Cary Grant, Audrey Hepburn, James Coburn e un altro di cui non ricordo il nome a un certo punto si ritrovano nella camera di un albergo davanti al corpo di George Kennedy che è stato assassinato nella vasca da bagno. Kennedy è uno molto cattivo nel film e ha un braccio a uncino. James Coburn dinanzi al cadavere dice: ” Be’ speriamo che vada a ricongiungersi con la mano che gli manca”. Ecco, quell’idea del ricongiungimento del corpo mi folgorò. Lo vuol sapere? Quella notte ho sognato che lei mi chiamava e mi diceva di partire…»
«E dove ti mandavo?», chiesi io mentre sventolavo la bottiglia dell’acqua chiedendo all’oste di portarmene un’altra.
«A Mantova» rispose Mario girandosi verso il padrone del locale. «Anche una birra per me» disse non appena fu arrivato.
«Non ti andrebbe una grappa?» gli domandai accendendomi il sigaro.
«Vada per la grappa».
«Di ramandolo anche per lei?». Mario annuì e l’oste mi chiese se volevo ancora l’acqua.
«Certo, prima l’acqua e poi la grappa. Come al solito». Scosse la testa e dopo poco tornò con due bicchierini, una bottiglia d’acqua ed una di grappa.
«Questa non la berrà da nessun’altra parte» disse appoggiandola sul tavolo. «La fanno apposta per me dei contadini di Valdobbiadene». E sparì com’era arrivato.
«A Mantova mi mandava» riprese Mario assaporando il primo sorso. «Per un incidente sul lavoro. Un uomo era rimasto schiacciato sotto una pressa e fuori gli era rimasta solo una gamba. Solo questo ricordo di quel sogno. Ma credo che avesse a che fare con il mio vero sogno, quello della gamba che cerca il suo padrone. Però davvero non ricordo altro».
«Ci sei mai stato a Mantova?», gli chiesi allora io.
«Sì, un paio di volte, a vedere palazzo Té e palazzo della Ragione. La seconda invece a passeggiare sul Mincio e a mangiare anguilla e polenta».
«Mai per lavoro?»
«Mai».
«Io ci sono stato una volta per lavoro».
«Che era successo?»
«Un omicidio».
«Che omicidio?»
«Una coppia di amanti aveva assassinato il marito di lei. Lui era il socio dell’uomo, ma di qualche anno più giovane. Li beccarono perché furono visti rifugiarsi in un albergo della zona pochi giorni dopo l’omicidio. I carabinieri cominciarono ad insospettirsi. All’inizio avevano creduto alla versione raccontata dalla donna. Degli sconosciuti, aveva detto, erano entrati in casa notte tempo, li avevano legati e imbavagliati, avevano portato via ogni cosa e, a un tentativo di reazione del marito, lo avevano ucciso. Lei era riuscita a liberarsi strisciando fino alla cucina, come i graffi sui gomiti e le ginocchia, aveva raccontando piangendo, potevano dimostrare. Poi aveva dato l’allarme e tutto per un po’ sembrò risolversi così. Qualche dubbio io e un collega di un altro giornale – lo chiamavamo il Faulkner dell’“Unità“ – lo instillammo nei nostri lettori e i fatti ci dettero ragione. Ma fu sgradevole inseguire la verità».
«Come sempre. Eah, la verità…».
Alzai la bottiglia per versargli un altro po’ di grappa, ma lui allungò la mano per respingermi e disse: «No grazie, se no crollo. Vado a fare l’ultima telefonata in questura e poi direi che è il caso di andare in branda».
Mi versai l’ultimo bicchiere e finii di trangugiarlo non appena tornò. Alzandomi sibilai un grazie talmente piano che non riuscì a sentire.
«Come diceva?»
«Niente… Buonanotte Mario, ci vediamo domani».
*
Rientrai a casa godendo dell’aria frizzante che mi pungeva il volto. Ascoltavo i miei passi rimbombare sotto le volte e ogni tanto mescolarsi al frastuono delle spazzatrici stradali, di sirene lontane e di treni fantasma. Sotto il bavero sentivo sprigionarsi il tepore del mio corpo moltiplicato dalla lana, avvertivo lo stacco, la reazione con il clima rigido della notte. Vidi alcuni barboni lungo il mio tragitto, rannicchiati sui marciapiedi, fra le colonne odorose d’urina dei portici, sovrastati da manifesti sgualciti, grondanti, lacerati. Incrociai più avanti qualche prostituta assonnata e stravolta, indifesa dal freddo. Non eravamo i soli abitanti della notte. C’era chi come me se ne stava tornando a casa, esausto, sfinito, rapito dal sonno e qualcuno invece si era appena levato. Alzai lo sguardo all’ingresso di Corte Isolani e vidi le frecce sopravvissute al tempo. Pochi passi ancora e sarei stato a casa. Attraversai piazza Santo Stefano imponendomi di nuovo di soffrire sui ciottoli arrotondati e sconnessi che la lastricano ancora. Mi chiesi perché mi trovassi in quella città, d’una bellezza superba, capace di vivere con gioiosa semplicità senza rinunciare…
Rientrai in casa e mi gettai sul letto senza neanche spogliarmi. Accesi la televisione, avendo premura di abbassare il volume perché non disturbasse i vicini a quell’ora di notte. Vedevo scorrere immagini che non significavano nulla: erano impastate come il mio palato bruciato dalla grappa. E più ancora era impastata la mia testa. Balenavano le parole di Mario, quella gamba separata dal suo inscindibile corpo, e ancor più era viva la frase con cui aveva rammentato la notte del sogno: lo vedevo insieme alla sua compagna, Isabella mi pareva che avesse detto, scompostamente stravaccati su un divano a vedere in televisione quel film di Stanley Donen. La mia a quell’ora trasmetteva spogliarelli pietosi e aste di mobili e tappeti. Ma il bisbiglio che concedeva attutiva il silenzio della mia stanza. Mi chiesi ancora che ci facevo in quella città, lontano da Margherita, a cui continuavo a promettere amore senza dargliene una sola goccia, fuggendo dal suo desiderio con un ipocrita cinismo, in base al quale giustificavo i miei tradimenti adducendo la distanza e ampliavo la distanza ricordando i tradimenti.
Allungai la mano sul comodino e afferrai con decisione la bottiglia di grappa. Era la mia, potevo portarla alla bocca senza dover ricorrere al bicchiere. L’avrei potuta finire senza aggravare ulteriormente la mia confusione. C’era una soglia oltrepassata la quale, l’eccesso non aveva più quantità, non c’erano parametri per misurarlo.
Sentivo solo che lentamente mi stavo ritirando da ogni dove, lasciando solo due spazi entro i quali muovermi: la bottiglia e la redazione. Margherita l’aveva capito ma sembrava impotente dinanzi alla mia ostinazione. Lasciava che mi trascinassi e che trascinassi con me la sua serenità, quasi che assistesse al fato. Non riuscivo a spiegarle niente, non l’aiutavo a comprendere e quindi, forse, a reagire, a strapparmi da quell’orbita lenta, costante, apparentemente immodificabile.
Buttai giù l’ultimo goccio e lasciai che gli occhi si chiudessero. Le notizie del giornale radio li avrebbero fatti riaprire.
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Naturalmente venne quel giorno. Il corrispondente da Reggio Emilia ci telefonò presto al mattino. Presto per noi, voglio dire. Aveva fatto il solito giro dai carabinieri senza ottenere grandi risultati, poi era passato in questura e qui era venuto a sapere che a Correggio, non lontano da lì, una donna aveva rinvenuto una gamba abbandonata in un cassonetto alla periferia della città.
«Cosa vi faccio, trenta righe?», chiese con la cadenza della gente del posto.
«Sessanta!» gli ordinò il caposervizio della politica che a quell’ora si trovava già in redazione.
Io venni a saperlo poco più tardi, quando ci fu la riunione di redazione. Senza umiliare il collega sostenni che quel fatto mi pareva particolarmente interessante e che era il caso di seguirlo più da vicino. Dissi che avrei mandato Mario a Reggio Emilia. La segretaria di redazione appuntò l’ordine sul suo taccuino e chiamò immediatamente il fantasista a casa. Sentii che gli spiegava cos’era successo e che ero proprio io a volere che andasse. Gli chiesi di passarmelo, avrei preso la telefonata direttamente nel mio ufficio.
«Mario, a Reggio Emilia hanno trovato la gamba. È lei, voglio che racconti tutto quello che c’è da dire su di lei»
Ascoltò in silenzio e disse solo grazie.
Mi richiamò verso le tre del pomeriggio. Era arrivato da poco, ma aveva già preso contatto con i vigili urbani e con il responsabile della nettezza urbana.
«Ora vado lì, fra le 8 e le 9 avrà il pezzo». Tacque un istante e lo sentii sorridere nella cornetta. «L’articolo, voglio dire, non il pezzo di gamba», precisò.
Alle 8.30 chiamai il corrispondente da Reggio Emilia. Gli chiesi di passarmi Mario e mi sorbii la lamentela per l’usurpazione. «Dovevo scriverle io quelle 60 righe» sbottò con il suo buffo accento, senza essersi reso conto che a Mario invece avevamo chiesto quasi quattro cartelle. Sembrava che avesse bevuto e che strascicasse le parole. Ero la quarta persona a cui manifestava il suo scontento e la sua disapprovazione. Non gli dissi nulla che potesse lenire il malcontento.
«È lì Mario?» chiesi grave.
«Glielo passo» fu la desolata risposta.
«Digli che non posso – sentii gridare secco nel sottofondo della cornetta – avranno il pezzo all’ora che ho detto. Ora non posso, sto scrivendo…».
Il corrispondente di Reggio non riferì esattamente quello che aveva sentito.
«Dice Mario – balbettò – che se foste così gentili da richiamarlo tra un po’…»
«Digli quello che ti ho detto», echeggiò nel telefono.
«Ecco, diceva che lui in questo momento proprio non può, sì, insomma credo che stia parlando su un altro telefono e mi ha fatto un cenno…».
Sentii che via via riduceva il tono di voce e immaginai che stesse attorcigliandosi su sé stesso anche fisicamente, come per schermirsi, per avere un filtro con il collega.
«Va bene, va bene», tagliai corto. «Non ti preoccupare e…». Lasciai qualche istante di sospensione volutamente, per far desiderare le parole che sarebbero arrivate ed anzi sottolineai quella «e» acciocché fosse assolutamente chiaro che stavo per aggiungere qualcos’altro. Quando ebbi la sensazione che il mio interlocutore era rosolato al punto giusto conclusi: «… e non te la prendere se abbiamo mandato un inviato e non ti abbiamo lasciato scrivere. Lui è il migliore, capisci. Sarà per la prossima volta, vedrai sarà per la prossima volta».
Non disse nulla, farfugliò solo qualcosa che poteva essere un «a presto» abortito all’altezza dell’esofago.
Buttai giù e controllai le pagine che cominciavano ad ammassarsi sul mio tavolo.
Alle nove meno dieci vidi sul monitor del computer che lo spazio dedicato all’articolo di Mario a pagina 5 aveva cambiato colore. Le colonne erano state rosse fino allora ed ora erano gialle.
Squillò il telefono: «Il pezzo è dentro» disse il responsabile della tipografia dove affluivano le corrispondenze dalle sedi distaccate del giornale.
Non feci in tempo a riattaccare che il telefono squillò ancora.
«Ce l’hai». Era Mario. Non aggiunse altro e neanch’io volli dire niente di più. Buttai giù senza neanche salutarlo, ma sapevo che avrebbe capito.
Ora potevo leggere la sua storia, sapere cos’avremmo raccontato ai nostri lettori e comprendere qualcosa di più sul sogno di Mario.
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Da sola non sarebbe mai finita lì. Eppure quando l’hanno trovata era sola. Desolatamente sola. Neanche una lattina a farle compagnia, un sacchetto di cellophane, delle vecchie scarpe rotte. Né rotte, né in buono stato. Scarpe non ne aveva. La gamba era in fondo al cassonetto, ma il piede non aveva le scarpe. Anzi, la scarpa. Giaceva come un prosciutto abbandonato sul banco da un pizzicagnolo distratto. Aveva la stessa inteccherita consistenza, quella che possiedono anche il baccalà o lo stoccafisso prima di essere cucinati. Rigidi e flessibili, un po’ vulnerabili nella loro sottomissione agli agenti esterni.
Da sola non sarebbe rimasta a lungo. A scoprirla è stata la signora Arminia Gavolsi, classe 1918, energica pensionata residente a Correggio, Reggio Emilia. Alle 7 del mattino quella donna è già in strada, faccia il tempo che vuole. È abituata alla nebbia, l’ha sempre conosciuta, anzi le sembra di esserci nata dentro e di non averla mai lasciata. Da settant’anni suonati. È già in strada perché poi di giorno, quando la coltre fa trasparire un pallido sole, di cose da fare ce ne sono un’infinità. Alle otto rientra e ha già fatto la spesa, giù da Evaristo, il proprietario di quello spaccio che potrebbe fregarsi lo slogan dei grandi magazzini Harrod’s di Londra: «Dall’ago all’elefante». No, l’elefante non ce l’ha, mica serve in pianura Padana, ma tutto il resto c’è, almeno quel che serve all’Arminia.
Alle 8 rientra ed ha già buttato via il sacchetto della spazzatura con gli avanzi del giorno prima. Ma ieri mattina è rimasta con il braccio sospeso sopra quel contenitore giallo di fibra di vetro. Quella era proprio una gamba, non c’era possibilità di sbagliarsi, anche se poteva sembrare un prosciutto tanto era diventata scura la pelle.
«Una gamba d’uomo dell’età di 35-40 anni» le hanno detto senza ritegno gli uomini della polizia quando sono arrivati sul posto. Ma si dicono certe cose a una signora? L’Arminia c’è rimasta un po’ male, ma il peggio l’aveva già passato. «Per un attimo mi sono sentita mancare» ha tradotto uno degli agenti dopo averla sentita raccontare nel dialetto stretto delle sue parti.
I poliziotti l’hanno raccolta e infilata in un sacco che all’Arminia sembrava quello che lei stava per gettare. «La portiamo alla scientifica», le hanno detto e la donna mi ha confessato di aver pensato a una dottoressa.
«Gli esami non saranno pronti prima di quindici giorni», ha liquidato, per non dire “tagliato corto” il magistrato volendo far capire che solo da quelli si aspetta un indizio che lo aiuti a capirci qualcosa in questa…
«Articolata faccenda», ha detto un’altra delle persone che seguono l’indagine, senza accorgersi della gaffe e qui, per non giocarci un canale informativo, risparmiamo di fare il suo nome. Poi ha aggiunto che non si esclude possa trattarsi di un regolamento di conti nel racket, o di un delitto maturato per ragioni economiche, ma anche passionali, o forse una vendetta o un rito maniacale… insomma un «articolato» ventaglio di ipotesi per quell’arto.
Impacchettata come si è detto, la gamba è stata infilata in una di quelle valigie di metallo e questa è stata caricata su un’autoambulanza, la quale è partita a sirene spiegate – chissà perché l’autista pensava ci fosse ancora bisogno di correre? – verso l’ufficio che per l’Arminia è invece un medico di sesso femminile quindi, forse, un po’ più garbato nel manipolare l’arto.
Il quale, suppongo, dovesse essere ben vivo quando è stato amputato, perché l’estremità recisa era incrostata da un copioso grumo di sangue, segno evidente che il liquido vitale circolava ed ha circolato anche dopo lo scempio. Lo si desume dal fatto che quel corpo appariva avvizzito, come svuotato, sì, insomma, dissanguato, ancorché la pompa che spinge la linfa fosse dall’altra parte del taglio, da quella parte di cui non si ha tuttora traccia e, se il buon senso può fare una qualche previsione, non se ne avrà mai.
Duole riportare particolari tanto raccapriccianti, ma essi servono a spiegare qualcosa dell’efferato delitto, giacché di questo si tratta, non essendosi presentato nessuno in alcun pronto soccorso a reclamare lo smarrimento di un’estremità. Sì, in altre parole, quell’uomo è morto e si possono fare solo due ipotesi: che gli abbiano tagliato la gamba e l’abbiano lasciato morire dissanguato in preda ad atroci dolori – a meno che l’organismo per difendersi da tanta sofferenza non abbia ben presto consentito che la coscienza abdicasse preferendo la strada del coma – oppure che dopo averlo martoriato, lo abbiano finito inferendogli il colpo letale nella parte del corpo a noi sconosciuta.
Un elemento spinge a dubitare di questo secondo scenario: come si è detto vi sono vistose e cospicue macchie di sangue sulla gamba abbandonata, ma sono tutte addensate nella parte superiore dell’arto. Formano una specie di escrescenza ribollente sulla sezione martoriata, un’orribile protuberanza che anatomicamente si sarebbe elevata fino all’inguine, all’appendice, forse addirittura all’ombelico, ma né calano né colano lungo la coscia, non inondano il ginocchio, non si spingono fino al polpaccio, non raggiungono la caviglia o il piede. La si sarebbe potuta paragonare a un’immensa purpurea stalagmite, ma si sarebbe dovuto dibattere se non si fosse trattato invece di una stalattite, perché è vero sì che anche quella gamba, come tutte le gambe, si trovava sotto al corpo, ma la stratificazione non è potuta avvenire per deposito di gocciolamento dal tronco superiore, si è invece generata per stillicidio del pezzo inferiore. Il che ci spiega, insieme all’assenza di altre tracce lungo l’arto, che la gamba, appena recisa, è stata immediatamente capovolta, o addirittura, il che è più probabile, che l’amputazione sia avvenuta mentre l’uomo era rivoltato, come un astronauta che si libra in assenza di gravitazione.
Se l’assassino avesse voluto accanirsi sul busto del malcapitato, con molta probabilità avrebbe finito per mollare la presa alla caviglia e la gamba avrebbe assunto una posizione orizzontale, ma così si sarebbe insozzata, lordata e noi sappiamo che non è questa la realtà.
La signora Arminia deve aver compreso qualcosa di questo quando ha esclamato «Mi sono sentita mancare», e infatti è stata anche udita confidare a un’altra donna sopraggiunta sul posto che quel moncherino adagiato sul fondo del cassonetto vuoto le ricordava un vitello agganciato penzoloni da Ascanio, il fratello di Evaristo che c’ha una macelleria al mercato di piazza Prampolini.
Se ne poteva trarre che l’assassino era un uomo alto e corpulento, tanto che era riuscito a sollevare la sua vittima afferrandola per quella caviglia, aiutato in questo dal fatto che il reperto ritrovato dalla polizia su indicazione dell’Arminia, rivelava una bassa statura del morto, a giudicare dalla sua scarsa lunghezza (il che, appunto, la rendeva ancor più simile a un prosciutto).
Un ulteriore indizio, infine, fa pensare che in qualche maniera quella gamba abbia cercato fino all’ultimo di non staccarsi dal suo legittimo proprietario, come se si ribellasse allo scempio, ed anzi che addirittura abbia potuto pregarlo, invocarlo, forse inseguirlo. Si è detto quanto inanime fosse e come ciò trasparisse prima di tutto dal colore e poi da quell’inteccherimento. La parola che più rende lo stato in cui è stata trovata è senza’altro incartapecorimento.
Ma, malgrado questo improvviso e rapidissimo invecchiamento, la gamba, che fin dal primo momento è stata identificata come appartenente ad un uomo della presunta età di 35-40 anni, sembrava essersi incantata nell’atto di scattare, come se si fosse cristallizzata nel preciso momento in cui cercava di fuggire e di mettere in salvo il suo possessore e questo cozza marcatamente con l’ipotesi fatta in precedenza, perché quella posizione, o meglio quel movimento, appare impossibile in un uomo che penzola sottosopra, scombussolato come la Terra se fosse d’un tratto fuggita per la tangente lungo la sua traiettoria intorno al Sole.
Ciò nonostante, questo particolare non offusca minimamente lo scenario appena descritto e la dinamica del delitto, ma risulta invece credibile se lo si considera sfalsato, nel tempo, rispetto al momento dell’esecuzione. E se cioè si attribuisce a quel desolato orfano pezzo d’uomo una carica difficilmente confutabile: quella di voler vivere. Unita, stretta, legata, fusa al busto che fino a ieri l’aveva trascinata.