LA PAROLA

Ergastolo

È la pena detentiva estrema che viene inflitta in Italia, per diversi capi di imputazione. A discrezione del giudice, per gravissimi ed efferati delitti contro la vita e la persona, oppure contro le personalità dello Stato, contro l’incolumità pubblica, per delitti legati all’associazione mafiosa, nonché tutti quelli per cui era prevista la pena di morte.

Introdotto nel 1889, quando nel Regno d’Italia fu abolita la pena capitale, l’ergastolo consiste nella privazione della libertà personale per tutta la durata della vita del reo ed è disciplinato dall’articolo 22 del Codice penale del 1930, che recita: «La pena dell’ergastolo è perpetua ed è scontata in uno degli istituti a ciò destinati, con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno. Il condannato all’ergastolo può essere ammesso al lavoro all’aperto». La “perpetuità” è mitigata dall’articolo 176 del Codice penale, secondo il quale il condannato all’ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia effettivamente scontato almeno 26 anni, se ne viene provato il ravvedimento.

Il lemma deriva dal latino ergastŭlum, che nell’antica Roma indicava il campo di lavoro dove venivano rinchiusi gli schiavi condannati a vita. Successivamente, per metonimia, è passato a definire la pena stessa. La radice della parola, viene dal greco ergastérion, a sua volta derivato da ergàzomai che significa lavorare. In questo caso lavoro forzato.

Tuttavia, il carattere perenne dell’ergastolo ha suscitato, in Italia, dubbi di legittimità e compatibilità con l’articolo 27, comma 3 della Costituzione,  «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Dubbi respinti dalla Suprema Corte (sentenza  264/1974), secondo la quale «funzione e fine della pena non è solo il riadattamento dei delinquenti» e la pena dell’ergastolo, per le modifiche intervenute nel corpus normativo, «non riveste più i caratteri della perpetuità». È grazie al pronunciamento della Corte Costituzionale, inoltre, che il carcere a vita è stato escluso per gli imputati sotto i 18 anni, perché incompatibile con la finalità rieducativa del minore.

Anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel 2013, ha emesso una sentenza (la 66069 del 9 luglio 2013), secondo la quale l’ergastolo, nell’ipotesi del “fine pena mai”, viola i diritti umani fondamentali, riconosciuti e garantiti dalla stessa Corte, perdendo il fine reintegrativo e rieducativo della pena.

Senza pensare a Totò Riina o a Larry Nassar, oggi, più che mai, vale ripeterlo, visto quello che è successo in Turchia. Il Paese, prima di Erdoğan, più europeo tra quelli asiatici e in attesa di entrare nell’Unione. Cosa possono aver commesso di tanto orribile i giornalisti  turchi Ahmet e Mehmet Altan e Nazli Iliack, tutti già in carcere all’indomani del golpe del 2016, per essere condannati all’ergastolo? Hanno semplicemente svolto il proprio lavoro, esercitando il diritto di cronaca e affermando la libertà di parola e stampa. Accusati di aver tentato di rovesciare l’ordine costituzionale e di aver sostenuto movimenti terroristici attraverso la loro attività giornalistica, hanno subito la condanna a vita, malgrado che la Corte Costituzionale turca avesse recentemente dichiarato illegittima la loro carcerazione preventiva.

«Lo stato di diritto in Turchia è morto»,  ha scritto ieri la FNSI in un comunicato. Lo stato di diritto era già morto un anno fa, quando i tre giornalisti sono stati messi in manette per la prima volta. E anche in altre parti del mondo, apparentemente più democratiche, se misuriamo la salute dello stato di diritto sulla reale libertà della stampa, purtroppo sta poco bene.