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La storia di Andra e Tati, sopravvissute ad Auschwitz

Le rotaie che portano verso l’ingresso di Auschwitz, il simbolo di tutti gli orrori perpetrati dagli uomini contro i propri simili, con il suo cancello e la terribile scritta, «Arbait macht frei», il profilo nero dell’edificio principale, la neve, la nebbia, il gelo fin dentro alle ossa, il terrore. Non deve essere stato facile tornare qui, nemmeno dopo 60 anni. Ma Tati e Andra Bucci, sopravvissute alla follia nazista – due, tra i 50 bambini usciti vivi da Auschwitz dei 230 mila che lì vennero internati – lo fanno più volte all’anno, da quando nel 2005 hanno di nuovo varcato quel cancello.

Le sorelle Bucci, come vengono chiamate dovunque si presentino a raccontare i loro 10 mesi dietro il filo spinato del campo di sterminio, avevano 6 (Tati) e 4 (Andra) anni, quando alla fine del mese di marzo del 1944, vennero prelevate dalla loro casa di Fiume, Insieme alla mamma, la nonna, subito uccisa nella camera a gas, il cuginetto Sergio, che non sopravvisse agli esperimenti degli spietati medici dei lager, e altri familiari. Furono portate prima alla Risiera di San Sabba, vicino a Trieste, dove rimasero per due giorni, e da lì, con un viaggio di circa mille chilometri dentro al convoglio 25T, ad Auschwitz.

Arrivarono il 4 aprile 1944 e rimasero fino al giorno della liberazione da parte dell’Armata Rossa, il 27 gennaio 1945.
Appena scese dal convoglio, furono portate nel piazzale del campo, insieme a tutti gli altri deportati che erano sul treno, smistati in più file. La nonna fu fatta salire sul camion che portava alla camera a gas. Questo doveva essere il destino anche di Andra e Tati, dato che era prevista l’uccisione immediata delle donne con i bambini, di chi avesse più di 60 anni e meno di 15. Se i più piccoli venivano risparmiati, era per andare nei laboratori di Mengele, dove trovavano la morte, spesso tra atroci sofferenze.

Il feroce dottore aveva una particolare predilezione per i gemelli, sui quali conduceva i suoi esperimenti di eugenetica, e forse fu anche questo che risparmiò la vita alle piccole Bucci, molto somiglianti malgrado i due anni di differenza e scambiate per gemelle. Furono, quindi, mandate nella baracca dei bambini destinati al laboratorio di Mengele, il Kinderblock, insieme al cugino Sergio, e separate dalla madre e dalla zia inviate al kommando dei lavori forzati.

Photo: Ansa/Claudio Onorati

«Non abbiamo fatto niente per sopravvivere – raccontano – è la vita che ha voluto risparmiarci. Nessuno poteva fare niente, neanche un adulto poteva fare niente. È il caso che lo ha voluto, lo stesso caso che ha fatto sì che quando siamo arrivate a Birkenau, Mengele non avesse bisogno di tanti bambini per i suoi esperimenti, ma scambiandoci per gemelle ci ha comunque messo da parte». O forse perché figlie di una coppia mista, poiché solo la madre era ebrea, mentre il padre era cattolico. Andra e Tati ricordano anche un altro episodio, legato alla kapò addetta alla sorveglianza della loro baracca, che forse fece la differenza tra la vita e la morte. «Un giorno venne e ci disse: “verranno degli uomini, raduneranno tutti voi bambini e vi diranno: chi vuole vedere la mamma e tornare con lei, faccia un passo avanti. Voi dovete rimanere ferme al vostro posto, non rispondere assolutamente nulla”. Noi ubbidimmo, mentre chi rispose sì, tra cui Sergio, partì per la camera a gas o per i laboratori di Mengele».

Nei circa 300 giorni in cui rimasero al campo, videro la morte, «cadaveri nudi di persone di ogni età ammassati dentro alle baracche – ricordano – che spuntavano dalle porte o dalle fessure del legno, che non potevamo non guardare. Nostra madre ogni tanto riusciva a raggiungerci, ci chiamava per nome, affinché non diventassimo solo numeri».

Dopo la liberazione non seppero più niente della famiglia per un anno: portate prima a Praga in un centro di raccolta per gli orfani dei campi di sterminio, poi in Inghilterra a Lindfield in un istituto per i bambini sopravvissuti ai lager, quindi accolte da una famiglia inglese. Infine, nel 1946 il ricongiungimento con i genitori e la zia, a Roma.

La loro storia è diventata un libro, Noi, bambine ad Auschwitz (Mondadori, 2019), che, grazie alla collaborazione tra il ministero dell’Università e della ricerca, la Rai e il centro di produzione video Larcadarte, è oggi anche un film di animazione, La stella di Andra e Tati (visibile su RaiPlay) il primo del genere sulla Shoah, diretto da Rosalba Vitellaro e Alessandro Belli, con i disegni di Annalisa Corsi, il doppiaggio di Leo Gullotta, Laura Morante e Loretta Goggi. Presentato a Torino ad aprile 2018, è stato trasmesso da Rai 3, lo scorso 5 settembre, per l’ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali in Italia e ora è materiale didattico nelle scuole, per spiegare ai bambini questo tragico momento della storia del Novecento, attraverso un linguaggio a loro più vicino.

La parola chiave che ricorre nel libro, nel film, come nella testimonianza di Alessandra e Tatiana Bucci, questi i loro nomi di battesimo, è memoria. La memoria vivida che solo la testimonianza diretta può dare: la loro, quella di Sami  Modiano, di Liliana Segre, Piero Terracina, Anita Lasker-Wallfisch, Armando Gasiani e ormai pochi altri, entrati ad Auschwitz bambini e usciti adulti, che sono ancora in vita e in grado di raccontare.