Della scomparsa di Ibio Paolucci, storico giornalista del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, TESSERE ha dato prontamente notizia sabato scorso.
Oggi pubblichiamo un “appassionato” ricordo scritto da Beppe Ceretti, a lungo caporedattore della redazione di Milano de “l’Unità”:
Chi è stato Ibio Paolucci? Come si possono sintetizzare gli oltre 91 anni della sua intensa vita?
Impresa vana perché non di vita, ma di più vite si dovrebbe parlare e scrivere, dal bimbo che lascia con la famiglia la natia Maremma in stato di necessità sino all’uomo dal passo incerto, ma dalla mente purissima, che abbiamo accompagnato in questi ultimi giorni.
Uomo coltissimo, è scritto di lui, tra l’altro, nel ricordo apparso sulle pagine del “Corriere”.
Come negarlo? Resta da aggiungere, a quella definizione, straordinario autodidatta perché, senza il suo intimo slancio vitale, nessuna mano tesa avrebbe potuto trasformare lo scalda chiodi delle fabbriche dell’amata Genova nell’intellettuale militante che noi abbiamo conosciuto e ammirato, nel protagonista di tante battaglie dalle pagine de “l’Unità”, in difesa della democrazia, un baluardo che è parte costitutiva della sua militanza nel Pci.
Gabriella, Gaby, è stata il grande amore della sua vita, 62 anni insieme. È morta 12 giorni prima di lui. Un dolore che non è difficile diagnosticare tra le cause che hanno minato in modo irreversibile il suo precario equilibrio fisico.
Accanto a Gaby, ecco Alba, Francesca, Laura, Ezio, Franco, Oreste e il sottoscritto. Siamo stati la sua famiglia allargata negli anni più recenti, sino agli ultimi mesi e giorni. Ricordandolo in queste ore amare, si compongono i tasselli di care e tanto intime memorie che svelarle ci parrebbe un torto.
Quante chiacchiere, proprio da bar, visto l’itinerario, breve, che ci conduceva dinanzi a un cappuccio, forse proibito, ma pretesto di tante conversazioni, le più diverse. Pubblico e privato, presente che s’intrecciava al passato, tuttavia senza eccessi di nostalgia che a lui parevano esercizio vano. Anche se il suo senso di appartenenza a una comunità solidale si sintetizzava nella splendida parola “compagno”, pronunciata come simbolo d’affetto e vicinanza, ma anche come monito. Essere “compagno”, era motivo di privilegio che comporta ben più oneri che onori, e soprattutto coerenza di comportamenti.
Se potessi averlo di fronte, mi piacerebbe intrecciare con lui quei giochi verbali che tanto amava e che si accompagnavano a un sorriso complice. L’ultimo che gli ho strappato era proprio di questa natura. Lasciandolo la sera precedente e mai immaginando che non l’avrei più rivisto in vita, avevo per le mani un libro sulla vita del grande pianista Svjatoslav Richter, regalatogli dall’amico Guido Calvi, che stava sul comodino. Gli dissi con il consueto tono da burla: «Che fai, ti metti a leggere biografie dei campioni della nazionale tedesca di calcio?».
Pronto mi replicò: «Prima di tutto Richter non è tedesco, è nato in Ucraina quand’era Unione Sovietica e poi sei sicuro che ci sia un giocatore di nome Richter?».
«Sei proprio un ficcanaso», gli risposi e lo lasciai con una carezza sulla fronte, affiancando la figura di quel padre putativo a quella di mio padre che tanto ho amato. Non rinunciando alla battuta finale: «Ciao Ibio, sai che ti dico? Sei l’unica forma di comunismo realizzato che io conosca». Un lieve sobbalzo delle lenzuola mi fece capire che aveva gradito.
Dodici ore dopo, con un enorme groppo in gola, rimasto solo per alcuni minuti nella stanza accanto a quel corpo senza vita, ho posato l’occhio sul libro oggetto della burla serale. Lo confesso, accompagnato da un pianto liberatorio, ho pensato in quegli istanti che la frase con la quale si è concluso il nostro rapporto terreno sia la verità, nient’altro che la verità.