LA DATA

11 luglio 1979


«Mio padre era un uomo onesto, rispettoso delle istituzioni, scriveva Paese con la P maiuscola». Sono le parole con cui Umberto Ambrosoli ricorda il padre Giorgio, ucciso da un sicario a Milano, la sera dell’11 luglio 1979. Lo racconta nel libro Qualunque cosa succeda, pubblicato trent’anni dopo l’omicidio commissionato dal banchiere siciliano Michele Sindona, su cui Giorgio Ambrosoli stava indagando. Una delle pagine più oscure della storia dell’Italia repubblicana, macchiata da intrecci mai del tutto venuti fuori, con nomi illustri come Ambrosoli che hanno pagato con la vita la propria rettitudine, e nomi meno illustri, suicidati come il banchiere Calvi e lo stesso Sindona. Intrecci e segreti che giacciono nella tomba insieme ai mandanti.

Avvocato, specializzato in diritto fallimentare, Giorgio Ambrosoli era nato a Milano da una famiglia borghese, cattolica e conservatrice nel 1933. Nel 1974 venne incaricato dal governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, come commissario liquidatore della Banca Privata Italiana portata quasi al crack finanziario da Sindona. Il compito di Ambrosoli era quello di analizzare la situazione economica dell’istituto di credito, ma soprattutto gli intrecci tra finanza, politica, mafia, massoneria.

Le indagini, peraltro, erano partite già qualche anno prima, quando la Banca d’Italia aveva iniziato ad investigare sulle attività di Sindona e aveva concesso l’accorpamento degli istituti di proprietà del banchiere siciliano nella Banca privata italiana, affidandone le redini al direttore centrale del Banco di Roma, Michele Fignon.

Proprio partendo dalla relazione di Fignon, Ambrosoli, si rese conto della gravità  della situazione, dell’intreccio mortale tra politica e poteri occulti, intuendone la pericolosità, ma assumendo comunque l’incarico di dirigere la banca come commissario liquidatore. Più si addentrava nell’analisi delle carte, più si rendeva conto delle connivenze, dei tradimenti compiuti anche da pubblici ufficiali, delle gravissime irregolarità commesse. Contemporaneamente cominciò ad essere oggetto di forti pressioni e di tentativi di corruzione, affinché avallasse documenti che comprovassero la buona fede di Sindona e la sua estraneità ai fatti contestati.

Ma Ambrosoli era un uomo onesto, educato nella salda fede cattolica, al servizio del Paese, l’eroe borghese dell’omonimo libro di Corrado Stajano e del film di Michele Placido. E non cedette. Pochi mesi dopo l’inizio dell’attività investigativa, il 25 febbraio del 1975, mentre si apprestava ad effettuare il deposito dello stato passivo della banca di Sindona, scrisse una lunga lettera alla moglie Anna, in cui palesava le sue preoccupazioni, confermando al contempo la ferrea volontà di andare avanti e di non piegarsi al sistema che era stato chiamato a contrastare.

In un passaggio della lettera, tuttavia, scriveva: «È indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l’incarico. Lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il Paese». Infine, sottolineando quanto questo incarico gli avesse creato nemici, «(…) qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto».

Parole che suonano tristemente lucide, se quattro anni dopo, il killer americano William Joseph Aricò, che Sindona aveva pagato con 115 mila dollari, lo aspettò sotto casa e lo uccise con quattro colpi di 357 Magnum.

Nel 1999, Ambrosoli è stato insignito della medaglia d’oro al valor civile quale «splendido esempio di altissimo senso del dovere e assoluta integrità morale, spinti sino all’estremo sacrificio». Tuttavia, all’uomo di cui, dopo l’omicidio, Andreotti, disse che «se l’andava cercando»,  lo Stato non aveva accordato nessuna protezione.

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