C’è un filo invisibile che collega Yakov Vincenko e Oleg Mandić. Uno è il soldato dell’Armata rossa che il 27 gennaio 1945 ha varcato per primo i cancelli di Auscwhitz e ha scoperto l’orrore (TESSERE ha riproposto qui la sua toccante intervista, rilasciata a “La Repubblica” nel 2005). L’altro è il prigioniero numero 189488 del campo di Auschwitz-Birkenau, l’ultimo ad uscire, quello che, come lui stesso ha dichiarato, ha chiuso la porta dell’inferno. «Sono stato io l’ultimo a uscire vivo da Auschwitz. Avevo 12 anni, ho sbarrato il cancello», racconta.
Nei giorni scorsi è stato ospite d’onore del premio giornalistico Papa Hemingway di Caorle (Venezia) e ha concesso una nuova intervista, questa volta al giornalista Stefano Polli dell’Ansa, cui ha raccontato i nove giorni nascosto in mezzo alle baracche con la madre e la nonna, insieme ad altri 5.500 disperati, in attesa dei russi. Mentre i tedeschi, da giorni in fuga, rastrellavano il campo e sparavano a tutto ciò che si muoveva. Non volevano lasciare testimoni e portarono via almeno 80.000 prigionieri, di cui solo la metà riuscì a sopravvivere alla “marcia della morte”. Di quelli che, invece, riuscirono a nascondersi, non tutti si salvarono. In molti morirono per aver mangiato troppo, quando riuscirono a raggiungere i magazzini con il cibo.
«Furono nove giorni di attesa – racconta Mandić – poi una notte accadde il miracolo. Stavo dormendo ma fui svegliato da un brusio. Vidi un gruppo di donne e in mezzo a loro un soldato russo. Erano arrivati. C’erano candele a illuminare la baracca e il viso del soldato era circondato da un alone. Sembrava un dio, il soldato più bello che io abbia mai visto».
Nato nella Fiume italiana da una famiglia triestina, Oleg fu internato a 11 anni, nel luglio del 1944, come prigioniero politico insieme alla mamma e alla nonna, “colpevoli” di essere moglie e madre di due partigiani amici di Tito. Furono arrestati il 15 maggio e imprigionati per due mesi nel carcere triestino del Coroneo, da cui i condannati a morte partivano per la Risiera di San Sabba, finché le SS non li caricarono su un treno, stipati come bestie, alla volta della Polonia, dove arrivarono dopo tre giorni e tre notti. Ad Auschwitz venne loro assegnato un numero che poi venne tatuato sul braccio. Con tutta probabilità da Lale Ludwig, il prigioniero diventato tatuatore che tante vite riuscì a salvare grazie alla sua posizione “privilegiata”.
Storie che si intrecciano, amore, solidarietà, fratellanza e coraggio, gli unici antidoti al male.
La famiglia Mandić è stata “fortunata”, sono rimasti vivi. «Non eravamo ebrei – racconta Oleg in un’intervista a “Lettera43” del 2014 – e questo ci ha aiutato. Poi una serie di “coincidenze” hanno fatto sì che rimanessi con mia madre e mia nonna». Non ultimo aver trascorso “solo” sette mesi nel campo di sterminio, dove la sopravvivenza media era di otto mesi.
Oleg è scampato alla fame, al freddo, agli stenti e alle “cure” di Mengele, il Dottor Morte che utilizzava i prigionieri di ogni età e sesso come cavie umane per i propri esperimenti di eugenetica. Per oltre 10 anni, non è riuscito a parlare di quello che aveva visto e patito ad Auschwitz e per il resto dei suoi giorni non ha più voluto bere un sorso di orzo, la bevanda che durante la detenzione mandava giù disperatamente per combattere il freddo e la fame.
Più tardi, quando è diventato giornalista, ha capito che conservare la memoria di quanto è accaduto nei campi di sterminio tedeschi fosse l’unico modo per restituire giustizia, se mai è possibile, ai milioni di vittime dell’Olocausto. Ed è successo per caso. «Facevo l’apprendista giornalista e il mio caporedattore mi disse “c’è l’anniversario della liberazione di Auschwitz”. Io risposi: “E con ciò?”. Lui mi rispose: “Se c’è qualcuno che ne può parlare sei tu”. Ci pensai per due giorni interi. E poi ho capito che si doveva. E scrissi il mio primo articolo».
Da quel momento Oleg Mandić ha cominciato a raccontare la sua storia ogni volta che gli è stato possibile, ha scritto un libro (Il bambino di Auschwitz, pubblicato nel 2016 da Biblioteca dell’Immagine), e ancora oggi, a 86 anni, continua a girare l’Italia per portare la propria testimonianza dell’orrore.
Ed è tornato ad Auschwitz, ci torna spesso, perché è diventato per paradosso il suo rifugio. «C’è chi va dallo psichiatra, io per stare bene vado tra le baracche di Birkenau: ci ho passato uno dei 10 momenti più belli della mia esistenza. là in mezzo ho capito che il peggio era passato, che tutto quello che sarebbe venuto dopo nella mia vita sarebbe stato meglio. Ed è stata una vita bellissima».