Lo chiamavano Mitraglia, per la velocità dell’eloquio. Forse anche per quel suo essere combattente, sempre; resistente, sempre, anche se per dato anagrafico Vittorio Tommasi – veneziano, classe 1928 – alla Resistenza contro il nazifascismo aveva partecipato magari solo di striscio, o per auspicio. Eppure la sua figura, nel trascolorare dei ricordi che contraddistingue troppo spesso il nostro quotidiano, merita ben più di un pensiero, perché ha attraversato – da protagonista, da politico, da veggente – tutto il secondo dopoguerra italiano e le vicende dei partiti della sinistra. Con l’impeto della mitraglia, operatività e fiducia incondizionata nel valore dell’essere umano.
Pochi potevano intravvedere nel ragazzo, figlio di lavoratori portuali che – leggendo Jack London – si avvicina al socialismo, il vulcano che nei decenni successivi animerà la vita sindacale e politica di Venezia (anche se pare che mai lettura, Il tallone di ferro, sia più profetica, visto che persino Ernesto “Che” Guevara si dice debba il suo nome a Ernest Everhard, il protagonista del romanzo). Nessuno avrebbe potuto supporre che quello stesso giovane che intrecciava piccoli traffici al Porto avrebbe messo a frutto i propri talenti per inventarsi una nuova prospettiva sociale. Pragmatico ed irruento, sempre appassionato, Tommasi riesce – le testimonianze degli amici, compagni di lotte sindacali, politici ed intellettuali concordano su questo punto – a farsi cacciare da tutte le fabbriche di Porto Marghera per insubordinazione. Pare (qui bisogna fidarsi del racconto orale, perché nessuno l’ha trascritto) che abbia fracassato, una dopo l’altra, tutte le clessidre che gli operai sono costretti a porre in funzione, quando utilizzano i bagni. Anni dopo, Toni Negri – particolarmente turbato dall’evento – commenterà: «Bravo Tommasi! Questo è un atto rivoluzionario» e Vittorio, seriamente, gli risponderà: «Ti sbagli, volevo solo farmi gli affari miei in pace. Rivoluzionario non è questo. Rivoluzionario è formare la gente a credere nei propri diritti». Le idee sono già molto chiare: «Maieutica, mi ripeteva Vittorio, – è il ricordo di Giuliana Grando, moglie di Tommasi, psicanalista lacaniana, per molti anni segretaria di quel Circolo veneziano dell’Associazione Italia-Cuba a lui dedicato – era questa la parola chiave: far sì che le persone, da sole e collettivamente, si riappropriassero della dignità. Questo è stato il primo dei suoi insegnamenti: sì, rivoluzionario».
Poco dopo, nei primi anni Sessanta, Tommasi inizierà a lavorare al Porto, dapprima come manutentore in officina meccanica, poi come sindacalista CGIL Trasporti: «Ha sempre sostenuto – ricorda Giuliana – di appartenere alla terza componente, quella dei bastardi!». In effetti, la figura di Vittorio Tommasi è del tutto eterodossa: squisitamente bastardo, con quel tanto di esercizio che prevede un pensiero critico, Mitraglia percorre gli anni Sessanta con una matrice che si potrebbe definire “lombardiana”, ma suscettibile di ripensamenti e deviazioni.
Al Porto, innanzitutto, introduce l’esperienza dei “Quaderni Rossi”, quella rivista storica della sinistra operaista promossa nel 1961 da un gruppo di dissidenti tra cui Raniero Panzieri (che se ne andrà troppo giovane, nel 1964) e Mario Tronti; solo sei numeri, di cui il sesto dopo la morte di Panzieri e la fuoriuscita dello stesso Tronti, di Alberto Asor Rosa e di Massimo Cacciari, che fonderanno un’altra rivista, “Classe Operaia”. Eppure Tommasi sa cogliere le questioni essenziali, soprattutto quell’attività di ricerca comune tra operai ed intellettuali, su tematiche come la lotta di classe e l’organizzazione capitalistica del lavoro. Ciò che gli interessa, sempre, è il rapporto tra il socialismo e la libertà umana, così come l’importanza della vita e della sua tutela, al di là di ogni sigla politica.
Negli stessi anni, con la stessa energia, è tra i principali animatori del Circolo Panzieri di Marghera e partecipa alla nascita del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP): «Ci trovammo a Oriago di Mira, era il 1964 – racconta Silvano Gosparini, all’epoca fondatore con Lilli Olbi della celebre Libreria Internazionale di Venezia, in Rio Terà dei Nomboli – e noi portammo i libri, perché ci pareva un bel modo di festeggiare … Vittorio? Lui era entusiasta, andò alla stazione a prendere Joyce Lussu con una rosa rossa». «È vero – ricorda Giuliana Grando – Vittorio amava e stimava le donne. Riconosceva la loro intelligenza, la forza e l’apertura al cambiamento. Del resto, tutta la sua vita è stata impostata sul dono, sull’idealità che in lui era intimamente legata all’amore».
Se il PSIUP ha vita breve, il ruolo politico, d’incontro e confronto che Tommasi porta avanti nel suo lavoro di sindacalista non si ferma di certo: partecipa alla contestazione della Mostra del Cinema nel 1968; instaura intensi, fattivi dialoghi con intellettuali, artisti, gente di spettacolo. Realizza documenti filmati di quegli anni, qualche volta da solo (un famoso sciopero SAVE), in altri casi con cineasti come Gianni Minello. Per l’occupazione ed il ripristino del campo sportivo di Santa Marta, a Venezia, riesce a portare in città Dacia Maraini e Dario Fo (con quest’ultimo collaborerà nell’esperienza della Palazzina Liberty a Milano): «Vittorio – sostiene Giuliana – non si è mai allineato a movimenti che non tenessero conto della realtà e della condivisione di ciò che è importante».
È in questo periodo che inizia a farsi strada in Tommasi, anzi a prendere aspetto concreto (perché sicuramente era già presente in forma ideale) una diversa accezione del “prendersi cura” del prossimo. Qualcosa che, politicamente, è in sintonia con il percorso del sindacalista e dell’uomo: l’organismo degli esseri viventi deve essere concepito come un sistema che interagisce con l’ambiente, sostiene, e come tale essere affrontato, capito, amato. Cambia, nell’osservazione di Vittorio Tommasi, che medico non è, ma possiede innata la sensibilità per il dolore altrui e sente la necessità di alleviarlo, la definizione dell’intervento terapeutico; sarà il cambiamento delle abitudini, afferma, assieme a specifiche pratiche di autocoscienza, a svolgere un’azione importante nei confronti della sofferenza.
Da principio è solo un’idea, poi una scoperta che l’appassiona e lo spinge a studiare, a specializzarsi: ospite di amici medici a Roma, dove si è recato per un congresso sindacale, legge in una notte un testo su omeopatia e medicine alternative. Siamo negli anni Settanta: da quel momento in poi, Vittorio pone in quel progetto energie e fiducia. Nel 1974, con l’ARCI, crea a Laggio di Vigo di Cadore un campeggio (inizialmente per i figli dei portuali, poi per chiunque sia interessato) in cui s’insegna a riconoscere le piante medicinali e come utilizzarle. Giuliana ricorda che, nel decennio seguente, lei stessa si recherà a Londra per procurarsi essenze e farmaci in Italia ancora non facilmente reperibili.
Di sicuro, nell’idea di Tommasi che ognuno debba divenire in qualche modo “medico di sé stesso”, ha molta influenza la fascinazione per la Cina maoista. Compagni di lotta politica come Renato Darsiè ricordano la soddisfazione dei portuali veneziani che accolgono in laguna le prime navi cinesi: «Era tutta una bandiera rossa – racconta – e noi, in Riva degli Schiavoni, con il Libretto di Mao …». Sempre per il sindacato, Tommasi ha modo di visitare la Cina e d’instaurare contatti con esperti di medicina dolce, fino a radicare nel Porto l’esperienza del “medico scalzo”, di quei curatori che andavano tra la gente portando con sé insegnamenti antichi e, soprattutto, tramandandoli.
Si assiste così ad un fenomeno importante, che comprende l’insegnamento a medici e non medici, ai lavoratori del Porto, alla popolazione della medicina cinese, omeopatia, agopuntura, fitoterapia in un momento in cui di queste pratiche si parlava ancora poco. Nello stesso periodo – bisogna precisare – si stanno costituendo in molte realtà italiane gruppi legati a Medicina Democratica (movimento fondato nel 1972 da Giulio Alfredo Maccararo): aggregazioni di operai non strutturati sindacalmente e supportati dalla popolazione, per promuovere metodologie d’intervento in fabbrica sui temi della salute e della tutela ambientale. Tuttavia, la specificità del caso veneziano sta proprio nel porre l’accento sulla medicina orientale e sull’omeopatia: «Tommasi in questo aveva intuito e genio, gli devo molto» commenta Federico Allegri, psichiatra, oggi Direttore della Scuola di Medicina Omeopatica di Verona, che ha frequentato Tommasi da quando era studente.
Alla fine degli anni Settanta, Vittorio fonda infatti a Venezia, in fondamenta d’Arzere, vicino a Santa Marta, il cosiddetto Centro Biodinamico, con la sigla ARU (Associazione Ricerca Uomo), attorno a cui raccoglie esperienze diverse di medicina alternativa, di autocura, corsi di agopuntura e fitoterapia aperti a tutti. Non si tratterà di un’iniziativa estemporanea, ma di una struttura destinata a durare.
Si vanno, nel frattempo, intensificando i rapporti con la cultura latino-americana e con Cuba, in particolare, come prosecuzione ideale dei principi insiti nella medicina cinese. “Oggi a Cuba, domani in Italia” è il titolo del progetto ARU e del Circolo di Venezia dell’Associazione di Amicizia Italia-Cuba avviato molti anni dopo, nel 1995, da Tommasi con l’indispensabile ausilio di due grandi omeopati come Hugo Christian Carrara e Marcelo Candegabe: vi s’imposterà – con la partecipazione nello stesso anno ad uno storico Congresso di Omeopatia nell’Isola – una nuova visione, quella della cosiddetta “medicina integrata” che contraddistingue anche oggi il sistema sanitario cubano.
Vittorio farà a tempo a vedere le prime “Brigate della Salute” partire da Cuba per raggiungere le località più remote del Centro America, in occasione degli uragani del 1998: medici volontari, tecniche e diverse specializzazioni per provvedere ai bisogni sanitari immediati della popolazione: «Una grande avventura, quella che mio marito ha condiviso soprattutto con Hugo Carrara – commenta Giuliana Grando – Assieme, fino alla morte di Vittorio nel 2001. Hugo era solito dire che “Un amigo es uno mismo con otro cuero” (Un amico sei tu stesso con un’altra pelle), e loro due, pur diversissimi, riservato Hugo, una potenza della natura Vittorio, si completavano». Anche Carrara, pochi anni dopo, nel 2007, verrà a mancare. Però l’idea che li ha sostenuti entrambi – un mondo di condivisione, di dignità – è ancora attuale: «C’è molto da fare, ovviamente – conclude Giuliana – ma Vittorio mi ha insegnato ad essere ottimista. C’è ancora gente che crede al cambiamento. Ci siamo ancora noi che pensiamo di poter ragionare con la nostra testa, e non seguendo l’onda. Poi, mi è stato lasciato un grande enigma sull’amore: ho compreso che lui, soprattutto, trasmetteva desiderio e lo supportava senza limite, con una tenacia infinita … non c’è scelta, bisogna continuare».
Marcelo Candegabe, coautore con Hugo Carrara di un libro basilare per gli studi omeopatici, quell’Approssimazione al Metodo Pratico e Preciso dell’Omeopatia Pura, stampato proprio a Venezia nel 1997 per i tipi del Centro Internazionale della Grafica, scrive che l’uomo è luce trasformata: sparisce il corpo materiale, impermanente, ma il resto vive, come energia sottile.
Secondo gli ultimi dettami della ricerca che tanto amava e condivideva, piace pensare a Vittorio Tommasi come energia quantica. La scommessa gli sarebbe piaciuta e ne avrebbe fatto, ancora una volta, luce.