Lutto è una parola dal suono chiuso, quasi priva di emotività, dalle sfumature assenti ed è così breve che la si pronuncia alla stessa velocità con la quale si ingoia un boccone amaro. Istintivamente la si associa al colore nero, alla fine di ogni cosa, al silenzio di qualsiasi suono, e questo accade tendenzialmente prima ancora di ricondurla al suo significato concreto e di ricongiungerlo con la sua derivazione etimologica. Dal latino: luctus –us (lutto) dalla radice di lugere (piangere), “lutto” è appunto la rappresentazione linguistica del profondo dolore che si prova di fronte ad una morte.
Un lutto è quindi essenzialmente il nulla che prende il sopravvento su tutto il nostro vissuto, quando si subisce la notizia di una perdita in senso lato, intesa proprio come la fine definitiva, che sia di una persona cara, di un animale che si ama, o, ancor di più, di un insieme di persone che rappresentano in qualche modo una comunità, ed in questi casi si parla ad esempio di lutto cittadino, lutto nazionale, […tutto il paese è in lutto].
È come se di riflesso quella morte creasse un vuoto, uno spazio, una sorta di “distanza di sicurezza” tra noi e l’inaccettabilità di quell’evento. Prima ancora del pianto e della disperazione, c’è il lutto. L’essenzialità umana di un lutto si può dire risieda proprio nella cessazione psicologica di qualsiasi stimolo vitale. Una persona colpita da un lutto non ha voglia di fare nulla, se non tendere ad isolarsi da quel mondo che non riconosce più come quello dei momenti precedenti al fatto tragico. Da qui, l’esigenza di abbassare ogni tono, di rispettare il proprio calo emotivo attraverso la ricerca delle cose sommesse, come la luce fioca, ed il silenzio.
Un lutto si identifica quindi anche con un provvisorio stile di vita, o meglio di non vita, con una certa passività emotiva oltre che con il pianto, come invece suggerisce più propriamente l’origine del termine. Da un punto di vista sociale, un lutto genera anche una serie di comportamenti da parte di chi è vicino ad una persona che sta vivendo quel dramma e che vanno dalla più profonda condivisione solidale, al semplice rispetto di piccole attenzioni come quella di moderare gli entusiasmi al fine di non oltrepassare l’immaginario limite tra la morte nel cuore e la vita. Attenzioni primordiali ed istintive che però, specialmente nelle epoche passate, si tramutarono via via in vere e proprie regole sociali che, chi non rispettava, era da considerarsi gravemente inopportuno e fuori luogo.
Parallelamente sembrava necessario quindi, da parte di chi veniva colpito da un lutto, soprattutto familiare, renderlo noto pubblicamente, non solo per informare la comunità circa la scomparsa della persona e sulle modalità dei suoi funerali, ma anche affinché gli altri si adeguassero ad un comportamento ritenuto conforme rispetto alla situazione. È storicamente provato poi, che il tessuto sociale, specialmente nelle strutture meno emancipate come quelle del secolo scorso, è capace di trasformare anche una esigenza umana in un tabù, così imprescindibile, da sottoporre una persona al rischio inesorabile di essere criticata, qualora lo oltrepassasse.
Questo è accaduto anche in relazione alle situazioni di lutto, tant’è che osservare tutta una serie di comportamenti convenzionali, sembrò ad un certo punto diventare l’aspetto predominante rispetto all’intimità del dolore stesso. Per questo motivo, fino a qualche decennio fa, ancora esistevano tradizioni popolari secondo le quali il lutto era un periodo di tempo preciso, la cui durata veniva calcolata scrupolosamente sulla base del grado di parentela della persona che lasciava per sempre la famiglia, ed entro il quale bisognava attenersi ad un comportamento rigido per poter essere considerati “sofferenti dignitosi”. Il parente del defunto, pertanto, era tenuto a vestirsi quasi esclusivamente di nero, ad astenersi da qualsiasi divertimento, specie se in pubblico, e ad indossare sempre qualcosa di ulteriormente significativo come ad esempio una fascia nera al braccio oppure il caratteristico bottone da lutto all’occhiello. In questa ottica, anche il manifestare il proprio cordoglio era sottoposto a veri e propri rituali formali che variavano, anche se non di molto, in base al contesto e al luogo.
Le cose, però, sono andate poi progressivamente evolvendosi di pari passo con l’atteggiamento che l’uomo più moderno ha assunto nei confronti della morte. Il vero tabù oggi si può dire sia la morte stessa e non più il rigoroso rispetto nei suoi confronti e questo probabilmente, anche perché si tende ad assecondare un’idea di quasi onnipotenza, secondo la quale si pretenderebbe di poter avere potere su ogni cosa, persino sulla morte. In questo senso, il vero lutto diventa quindi la sconfitta umana dopo che si è realizzato che la morte non si può evitare, nemmeno quando si è cercato di fare tutto il possibile e con ogni mezzo.
C’è stata quindi una vera e propria inversione di tendenza, onde si preferisce pensare il meno possibile alla morte, allontanandone il pensiero in ogni modo e cercando proprio di evitare tutto ciò che ha da sempre simboleggiato questo lato così oscuro ed inquietante della nostra vita. Via quindi il nero, via la necessità di mostrarsi scuri in volto, via il bisogno di evitare situazioni in cui ci si senta tutto sommato ancora vivi dentro. Un lutto oggi viene elaborato in maniera fortunatamente diversa, molto più libera, più spontanea, più umana, meno vincolante, là dove per elaborazione, si intende proprio, secondo la psicologia, il superamento definitivo del dolore, affinché si possa tornare a vivere, a sentire e a comportarsi esattamente come prima di quell’annientamento psicofisico che ne consegue per natura.
Un lutto infatti è così devastante da impedire, a chi ne sia colpito, di lavorare. «Chiuso per lutto», non a caso, è la dicitura tipica che si legge affissa sulle saracinesche degli esercizi commerciali dopo la morte di un parente stretto. In segno di lutto si chiudono anche i cancelli, i portoni dei palazzi, le persiane a metà, le bandiere si ergono a mezz’asta.
Per lutto però, si intende anche in senso più ampio, il rispettoso riconoscimento generale nei confronti della scomparsa di persone che hanno dato molto del loro contributo in un determinato ambito professionale, oppure artistico. In questi casi si sente parlare appunto, ad esempio, di lutto nel mondo della cultura, dello spettacolo, del giornalismo, della moda, dello sport.
La parola lutto, però caratterizza anche un determinato adeguamento stilistico, quando, attraverso la scelta di una particolare impronta si cerca di rispettare la sobrietà in eventi in cui si celebri una morte. Si sente parlare quindi di personaggi “vestiti a lutto” oppure di chiese, ristoranti, e luoghi da cerimonie in genere, “addobbati a lutto”.
Un lutto è sicuramente l’esperienza umana più forte e devastante, pertanto la sua dolorosa impronta ha da sempre influenzato in maniera profonda tutta l’arte nel corso dei secoli. Dietro ogni manifestazione di sofferenza, che sia figurativa letteraria o musicale c’è una grave perdita che ne ha determinato il potenziale malinconico e struggente, talvolta delicato, altre volte decisamente dirompente.
Di sicuro, l’opera che per antonomasia ha dato voce al dolore della morte, incarnandone, se così si può dire, lo spirito, e mostrando le oscure ombre che aleggiano dietro le fragilità di ciascuno di noi è il Requiem di Mozart, significativo anche per l’incompiutezza da parte dell’autore, che intanto moriva, lasciando nel lutto chiunque abbia potuto ascoltarla e chi ancora lo farà.