LA PAROLA

Vetta

Il Kilimangiaro
8 marzo 1987: Ernesto Silvoni, Mario Berto e Alberto Bozza conquistano il Kilimangiaro

La vetta non è altro che la scalata, anzi, il punto apicale della scalata. È un po’ la storia del Kilimangiaro, il monte più alto del continente africano, la montagna singola più alta del mondo e uno dei vulcani più alti del pianeta; la storia di un simbolo che porta inesorabilmente fino alla conquista della vetta più adorata, che, con i suoi 5.895 metri di altezza, guarda dall’alto la Tanzania.

È anche la storia – non sempre altrettanto entusiasmante – della conquista di un altro traguardo: quello scandito, passo dopo passo, da un’altra scalata, che porta dritto al traguardo sociale. In questo caso arrivare in vetta vuol dire avere successo, essere in testa alla classifica, raggiungere una posizione di prestigio e di comando nell’ambito della società, con tanto di gloria e fama. In questo quadro non resta molto spazio per parole come sommità e cima, due ottimi sinonimi, costretti però a limitare la loro azione all’atto fisico della conquista della montagna, senza poter affrontare la complessità che si ritrova sulla vetta. Tutt’altra forza che non manca invece alla parola scalata, che corrisponde a tutte le molteplici esigenze di cui la vetta si è caricata. Solo queste due parole,  scalata e vetta, restano padrone del campo: una indica il cammino e l’altra segnala l’arrivo.

L’approccio continua a guardare a un mondo popolato da piante e montagne, ma sempre più spesso pronto a trasferire l’impegno da una vetta a un’altra. La vetta è un traguardo da raggiungere, ma ciascuno ha il suo.

Non si può dimenticare che linguisticamente l’idea di vetta è sempre stata riferita all’idea di un traguardo da raggiungere ad ogni costo, che si tratti di alpinismo o di politica, di scienza o di economia, di conquista di prestigio nella società. Nessuna contraddizione, quindi, da parte della lingua. Basti pensare ad altri tre sinonimi, pronti a comparire dietro l’angolo: apice, gerarchia e classifica. Attenzione soprattutto a quest’ultima, che la dice lunga.

È così che si affacciano anche pesanti valenze simboliche, che richiamano, di volta in volta, la religione, la politica, la magia.

In questa corsa alla vetta fanno la loro figura anche i numerosi sinonimi ancorati ai localismi, come pizzo, becca, bric, dome, aiguille, poncione, uia, che continuano a utilizzare la parola nella sua prima versione, quella di sommità o di cima. Nella geografia fisica le linee di vetta uniscono le cime più elevate lungo le dorsali montuose, le vecchie frontiere si presentano spesso come linee di spartiacque e passano attraverso le vette, che si trovano lungo posizioni strategiche.

Poesia, cinema e romanzo hanno fatto a gara nel celebrare la vetta.

Non si può che cominciare da Giacomo Leopardi che, «d’in sulla vetta della torre antica», si sofferma sull’antico campanile di Sant’Agostino a Recanati, per celebrare il «passero solitario che alla campagna cantando va, finché non more il giorno».

Vertigo

Giosuè Carducci va molto oltre, nella sua Ode al Piemonte, partorita durante il soggiorno al Grand Hotel di Ceresole: «Su le dentate scintillanti vette salta il camoscio, tuona la valanga». Le vette appaiono assai più vicine e la poesia un po’ più lontana.

Anche Alfred Hitchcock sceglierà la vetta di un campanile, nella Missione di San Giovanni Battista, per celebrare la scena madre del suo capolavoro La donna che visse due volte (Vertigo).

Toccherà però a Theodor Dreiser, autore del romanzo Una tragedia americana (An American Tragedy), raccontare la storia di un arrampicatore sociale pronto a tutto, fino al femminicidio, pur di scalare la vetta del potere.

Non c’è dubbio che arrivare in cima alla classifica sia la caratteristica comune a tutti coloro che puntano alla vetta, dagli sportivi ai politici, dagli scienziati ai malfattori. Tra loro sono lontanissimi gli obiettivi, le motivazioni e soprattutto i risultati. Clyde Griffiths, l’arrampicatore sociale, annega l’amante incinta per essere libero di sposare la ricchissima fidanzata e non dover rinunciare a scalare la vetta. Si parla di un romanzo, ma non c’è dubbio che la nostra società produca ormai quotidianamente mostri assai più inquietanti di quelli immaginati da Dreiser nel 1925.

Dietro questa parola, vetta, si nascondono certamente anche molti usurpatori: da chi cura con l’acqua fresca a chi s’improvvisa grande banchiere o condottiero. Quindi la prudenza è d’obbligo.

Forse puntare alla cima, alla testa della classifica, non è poi così indispensabile. Basta pensare al Cammino di Santiago, dove non conta arrivare in vetta, ma semplicemente arrivare.

Se si volesse comunque puntare in alto, si consigliano vivamente i Libri di vetta, collocati sulle cime dei monti più alti per essere firmati, di volta in volta, da tutti coloro che sono riusciti a raggiungerli solo grazie alle proprie forze. Da non dimenticare, nel caso di esaurimento delle pagine bianche, di riportare il Libro alla sezione del Cai, che provvederà a metterne a disposizione uno intonso.

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