È una voce onomatopeica e pertanto, mentre la parola viene pronunciata, si compie l’atto di mugugnare, brontolare, esprimere un dissenso a suon di “m” e di “u”. Il mugugno è una parola genovese, che, come poche altre, esprime il carattere della gente della città, schiva e stondäia (brontolona), restia, almeno in apparenza, all’accoglienza e alla socializzazione.
L’origine, come per altri lemmi tratti dal dialetto zeneise ma poi entrati di diritto nell’uso comune della lingua italiana, arriva dal mare, dal linguaggio dei marinai, che con il mugugno esprimevano non un semplice lamento, ma la loro contrarietà verso chi gestisce il potere e lo esercita calpestando i diritti. Qualcuno parla di un vero e proprio “ius murmurandi”, inteso come una «forma embrionale di democrazia». Considerare il mugugno un semplice lamento da persona malmostosa (parola di origine milanese, stavolta), quindi, sarebbe riduttivo, perché il diritto a brontolare si profila nei delicati equilibri delle gerarchie marinaresche, fino a far dire che «senza vino si naviga, senza mugugni, no».
E se qualcuno lo ritiene un lamento pigolante, sbaglia, perché è una forma di protesta profonda, dignitosa, democratica e molto discreta, ma che viaggia ostinatamente in una direzione. Ovvero l’affermazione di un diritto, senza che questo comporti il prevaricarne altri. Espressa, inoltre, con una precisa mimica: il sopracciglio inarcato, un’alzata di spalle, il tono della voce che assume l’andamento della tipica cantilena genovese, la còcina.
Nella lingua italiana, dove se ne attesta l’uso dall’inizio del Novecento, la parola mugugno, ha perso la propria pregnanza semantica. Significa ancora un brontolio a mezza voce, lamentio continuo, borbottio che rivela uno scontento, ma è lontano dalla forza della resistenza che il mugugno genovese porta nei propri geni.
«Del resto, “il mugugno nasce da qui – dice un anziano genovese, indicandosi il collo, al giornalista del “Secolo XIX”, Alberto Maria Vedova – poi ti scende dentro, sei incavolato e ti lamenti”. (…) Perché, alla fine, c’è sempre qualcosa che dà fastidio. Che si abiti a Genova o meno, che ci si lamenti nel reale o nel virtuale».