Giorno della Memoria 2020
«I treni arrivarono a Treblinka per tredici lunghi mesi, dal luglio del ’42 all’agosto del 1943. … Ogni convoglio aveva sessanta vagoni e su ogni vagone un numero: 150,180, 200. Il numero delle persone che trasportava…. Tredici mesi, trecentonovantasei giorni di treni carichi di esseri umani che ripartivano pieni di sabbia o vuoti… Nessuno di coloro che entrò nel campo numero 2 di Treblinka ha mai fatto ritorno a casa… Treblinka, una piccola e sperduta stazione tra sabbie e paludi, luoghi deserti e desolati, qualche raro villaggio… Una stazione stretta tra pini e sabbia, sabbia e ancora pini, erica, arbusti secchi, muri tristi. E una monorotaia che conduceva a una cava di sabbia bianca».
Nel giorno della memoria che ricorda la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, il 27 gennaio del 1945, ci spostiamo idealmente nell’est della Polonia, a 60 chilometri da Varsavia, per ricordare l’infernale fabbrica della morte, seconda solo ad Auschwitz per il numero delle vittime.
Lo facciamo con le parole di un grande cronista del tempo, Vasilij Grossman, corrispondente di guerra che, nel settembre del 1944, scrisse L’inferno di Treblinka(Adelphi), folgorante cronaca che venne data in lettura al collegio d’accusa del processo di Norimberga, costruita con le testimonianze dei pochissimi sopravvissuti (non del campo due), dei pochi abitanti, delle guardie.
Basterebbe solo ciò che Grossman narra nelle ultime pagine. Al seguito delle truppe sovietiche, entra nel campo e cammina su una terra senza fondo, che si fende, incapace di contenere i milioni d’oggetti, come una ferita che non si rimargina: camicie bruciacchiate, pantaloni, scarpe, ingranaggi d’orologio, temperini… Il cronista prosegue con un puntiglioso elenco lungo più d’una pagina fino a quei capelli biondi dai riflessi color rame che si mescolano alla terra. D’un tratto anche il suo dovere di testimone s’arrende: «Il cuore sembra fermarsi, stretto da una tristezza, da un dolore, da un’angoscia che un essere umano non può sopportare».
Da allora molto è stato scritto, pagine di alto sentire che hanno squarciato le orrende coltri della negazione. Ma questa testimonianza per il suo rigore, per il suo linguaggio scarno, essenziale, si consegna alla storia come una sorta di archetipo del racconto dell’Olocausto.
Se l’Olocausto va ricordato è perché il genocidio assunse caratteri di sistematicità tali da non avere paragoni, nemmeno in una secolare storia carica di efferatezze. La memoria collettiva assume allora le sembianze di «dovere umano reso assoluto e imperativo dopo lo sterminio, ma insieme anche dovere muto, senza parola», come scrive Antonella Tarpino in Geografie della memoria per l’incapacità di dare un nome allo sterminio, un evento che via via si chiama Olocausto, genocidio, soluzione finale, Auschwitz e ha trovato nell’espressione Shoah, nella sua essenza di parola semanticamente incerta, la definizione più congrua, più dicibile dell’indicibile.
I libri, di oggi come di ieri, siano i benvenuti, per l’eternità. Essi rappresentano l’unico antidoto contro le false coscienze, i non ricordo, l’indifferenza. Essi ci raccontano dello sforzo di tanti intellettuali, scrittori e più semplicemente uomini e donne di buona volontà di dare un futuro alla memoria collettiva, perché non sia vittima di processi di stratificazione per cui un gesto nasconde l’altro, le atrocità degli uni cancellano quelle degli altri. Se la storia dei perseguitati e dei vinti viene dimenticata, non resta che quella dei carnefici di ogni tempo.