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Quel banco vuoto al Tommaseo di Venezia

Alba Finzi e Ada Lotto, quindici anni entrambe, erano amiche e compagne di scuola in quell’autunno 1938 in cui entrarono in vigore in Italia le leggi razziali. Frequentavano, a Venezia, il quinto anno delle Medie. Quando Alba – discriminata perché ebrea e costretta a lasciare l’Istituto magistrale Tommaseo –  fu cacciata dalle aule, Ada pretese che il suo banco restasse vuoto.

È solo una delle storie, toccanti e significative, che Maria Teresa Sega (storica, saggista, presidente dell’associazione rEsistenze, ricercatrice e divulgatrice di memorie sulla Shoah italiana) ha raccolto in un bel saggio appena uscito che da quell’episodio ha preso il titolo: Il banco vuoto. Scuola e Leggi razziali. Venezia 1938-45, Cierre edizioni, 2018. Un’opera corale in cui Sega ha raccolto, nel corso di un ventennio, il maggior numero possibile di testimonianze scritte, trascrizioni di racconti orali e fotografie di quanti – giovani e giovanissimi – vissero nel capoluogo lagunare la discriminazione e l’allontanamento dalle scuole di ogni ordine e grado. Alla vicenda di Alba e Ada – paradigmatica di un’amicizia e di una condivisione che superano ogni follia – si affianca la storia del piccolo Leo, a cui un Preside bonario appunta ugualmente sul petto la “croce al merito al valore al balilla moschettiere Napoleone Jesurum, esempio ai camerati”, anche se il bimbo non ne avrebbe avuto più diritto. Oppure quella di Roberto che, prima di scappare da Venezia, sotterra in giardino un portamonete con i suoi tesori, tra cui un Magen David di osso.

Tuttavia,  al racconto dei testimoni – seguiti con attenzione e commossa partecipazione agli eventi narrati – Maria Teresa Sega unisce l’analisi precisa delle fonti archivistiche e documentarie: «La storia orale in questo contesto – commenta nella Prefazione Gadi Luzzatto Voghera, Direttore del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano –  è assunta come passaggio necessario, prima che anche l’ultimo dei testimoni ci lasci la responsabilità di raccontare quella storia… ». Sulle testimonianze dei sopravvissuti e sul materiale d’archivi pubblici, religiosi e privati, l’autrice costruisce un’opera militante che non guarda solo al passato: «Il libro – spiega Sega nell’Introduzione – è frutto di una ricerca durata due decenni, iniziata negli anni Novanta quando, distaccata all’Iveser, feci parte della Commissione per l’insegnamento della storia presso il Provveditorato agli Studi, che portò al convegno Pensare e insegnare Auschwitz: ci si interrogava su come affrontare l’insegnamento della Shoah, e più in generale del Novecento, dopo la legge istitutiva della Giornata della Memoria e il progetto ministeriale “I giovani e la memoria”». Maria Teresa va a caccia di dati negli archivi delle scuole, preziosi giacimenti di fonti, e ne propone l’utilizzo in laboratori didattici: «Una pratica  – commenta – che non solo consente di affrontare con gli studenti il tema con metodo storico, ma anche di compiere un’operazione di auto-memoria, di presa di consapevolezza che le proprie aule sono state teatro di fatti che hanno coinvolto ragazzi come loro».

Micro e macrostoria, in un intreccio utile e fecondo: con pazienza estrema, l’autrice individua volti nelle fotografie, verifica, riesce a far parlare molti superstiti e a portare le loro storie agli studenti di oggi: «Una relazione con il “diverso” che implichi la soggettività, sgretola pregiudizi e produce cambiamento dello sguardo. – scrive Sega – Nelle odierne classi multiculturali, dove gli “stranieri” spesso sono i più interessati ad ascoltare storie di discriminazione che non di rado vivono sulla propria pelle, parole come “accoglienza” e “respingimenti”, pur in contesti mutati, riecheggiano drammi attuali di vite in pericolo e di indifferenza». Ecco perché «indagare sulle vicende passate – commenta Gadi Luzzatto Voghera – può essere un atto efficace per restituire concretezza all’emergenza della nostra contemporaneità … ». Le memorie di Ferruccio e Olga, Roberto, Luciana, Carla, Riccardo, Graziella e tanti altri divengono la cartina di tornasole di un percorso diversificato nei destini, ma comune; la discriminazione, poi spesso la fuga, per qualcuno l’ingresso nella Resistenza e, per alcuni,  il ritorno. Storie drammatiche: delle 1500 persone appartenenti alla Comunità Ebraica veneziana, 248 vennero arrestate e deportate (e tra loro, i bambini erano 130). Soltanto in otto tornarono. Al rientro a Venezia, un mondo da ricostruire: case e affetti, il dolore per chi non c’era più, la difficoltà di raccontare. Rimaneva forte, in senso identitario, una solidarietà di appartenenza che le persecuzioni avevano rafforzato, anche quando – come nel caso di Lia ed Alba Finzi – non era inizialmente così evidente.

Ebrei di famiglia laica, poco osservanti, o praticanti assidui: i ragazzi veneziani ebrei, discriminati, a cui i coetanei fanno per le calli il gesto dell’ “orecchio di maiale” con il lembo  della camicia, a titolo dispregiativo, si ritrovano però nella grande esperienza della Scuola Ebraica al Ghetto e al Ponte Storto, nei pressi di Santa Maria Formosa (dove insegneranno anche docenti ebrei discriminati di notevole spessore intellettuale). «Fu una scuola libera e democratica in pieno regime fascista – racconta l’autrice – dove si praticava il pensiero critico e l’educazione come dialogo, si coltivava la formazione culturale in senso lato, risparmiandosi l’educazione premilitare e le adunate dei sabati fascisti». Paolo Sereni, che poi sarà deportato, riuscirà a tornare e sarà testimone al processo contro i carnefici di San Sabba, la definisce «un’oasi nel deserto del conformismo delle scuole italiane». Dopo l’emanazione del Decreto legge del 5 settembre 1938, che esclude dagli istituti pubblici studenti e insegnanti ebrei, l’organizzazione di una struttura scolastica autonoma diventa il principale impegno culturale e finanziario della Comunità Ebraica veneziana. La scuola elementare privata , già operante in Ghetto dagli inizi degli anni Trenta, diviene parificata dall’anno scolastico 1938-’39; i programmi sono gli stessi, tranne che per l’insegnamento della religione cattolica, sostituita da lingua, cultura e religione ebraica: 56 bambini in tutto, classi miste. Nel gennaio ’39, la Comunità ottiene dal Provveditore agli Studi di poter aprire al Ponte Storto anche una Scuola Media che comprende inizialmente Ginnasio-Liceo classico, Liceo scientifico, Istituto magistrale e Scuola tecnica inferiore (poi si limiterà la scelta, per l’insegnamento superiore, al solo Liceo scientifico): 52 studenti che – oltre alle materie previste dai programmi ministeriali – possono frequentare corsi liberi di lingua francese e inglese, ginnastica, danza, economia domestica, agraria. «È la nuova scuola (…) ad aprirci uno scenario diverso – racconta Leo Jesurum – che consente a noi ragazzi non solo di continuare gli studi, ma di colmare il terribile vuoto dovuto all’improvvisa scomparsa della nostra quotidianità». «Furono anni – commenta Maria Teresa Sega – dal 1938 al 1943, di quasi normalità per i ragazzi, fatta di fatiche scolastiche alternate a passeggiate con gli amici e scorribande estive nella spiaggia libera degli Alberoni. Fino all’ottobre ’43, quando la vita stessa fu in pericolo e di lì a poco l’ordine di cattura si abbatté sugli ebrei veneziani e li disperse».

I piccoli, le cui vicende Il banco vuoto ripercorre, divengono allora “bambini del silenzio”, nascosti in casa di amici o sconosciuti, in campagna o nei conventi, cercando di espatriare in Svizzera o andando verso le regioni liberate del Sud Italia. In parte si salveranno per la lungimiranza delle loro famiglie che presagiscono per tempo il pericolo, per l’aiuto offerto da tante persone che dimostreranno come si possa reagire, disobbedire, ribellarsi all’egoismo e alla paura. Qualche famiglia non ce la farà, per non aver capito la gravità degli avvenimenti, per non voler dividersi, o per la soffiata di un delatore. Maria Teresa Sega, nel suo testo di memoria militante, collega i ricordi di quel passato alle orme della grande Storia, ne propone una lettura vicina e c condivisibile. Quella condivisione, che ha una finalità squisitamente didattica, è la miglior risposta ad ogni revisionismo. «È accaduto, quindi può accadere di nuovo» ci ha ammonito Primo Levi» conclude l’autrice, facendo sue le parole rivolte agli insegnanti di Liliana Segre, dopo la sua nomina a senatrice a vita: «Prendete per mano i vostri ragazzi e attraversate con loro gli anni importantissimi in cui si diventa grandi. La conoscenza della cultura e della memoria storica li prenderà più forti e più liberi, liberi anche di scegliere, nella loro vita futura, tra il bene e il male, tra l’indifferenza e l’impegno». La miglior dedica che si possa immaginare, per un libro come questo.