Già l’etimologia della parola rancore rende bene lo stato d’animo che descrive: deriva infatti dal latino rancere, ossia, “essere acido”, con la stessa radice dell’aggettivo rancidus, che si traduce letteralmente in “rancido”. Si dice, del resto, “essere acido”, per una persona livorosa e risentita.
Il vocabolario Treccani definisce il rancore un «sentimento di odio, sdegno, risentimento profondo, non manifestato apertamente, ma tenuto nascosto e quasi covato nell’animo».
Che cosa può determinare un tale stato emotivo, oltre al carattere della persona stessa, che per sua natura può essere incline più di altre a lasciarsi sopraffare dal risentimento?
Di solito è un’offesa, un comportamento scorretto, un torto che ha prodotto un danno, presunto o reale. Chi ne è vittima, o che crede di esserlo, cova rancore verso chi è ritenuto “colpevole”, prova un sentimento misto tra rabbia e desiderio di rivalsa, se non addirittura i vendetta, che dura nel tempo e che produce un senso di frustrazione per l’impossibilità di far pagare all’altro il torto subito.
È, quindi, un’emozione molto negativa che impedisce a chi la prova di dimenticare la situazione o la persona che l’ha ferito. E proprio a causa del dolore che ciò ha provocato scatta il desiderio di “restituire il favore” a chi l’ha causato, aspettando il momento migliore per agire.
Il rancore favorisce la vendetta, l’ostilità e l’aggressività, produce odio e sofferenza, fino a diventare rimorso, quando è rivolto verso se stessi. Sono, infatti, sinonimi di rancore le parole astio, livore, risentimento, avversione, acredine, acrimonia, animosità, odio.
Tuttavia lo stato emotivo del rancore non è riconducibile solo a una situazione psichica individuale, poiché è un sentimento comune in cui hanno un ruolo determinante dinamiche relazionali storiche, culturali e sociali. La proclamata uguaglianza sul piano dei valori, proclamata nella società contemporanea, contrasta con le disuguaglianze nell’accesso alle risorse. Questo divario genera una tensione sempre maggiore tra desideri egualitari e disuguaglianze sociali, accresciute da una realtà competitiva e selettiva, che produce, come conseguenza, la diffusione del risentimento nella vita quotidiana.
Niente di più vero se anche il Censis, nel “Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2017” ha definito il rancore, come il «nuovo male dell’Italia». Il ritratto degli italiani che ne emerge, è quello di un popolo di incavolati neri, mortificati, incapaci di esprimere apertamente la propria rabbia ma anche di dimenticare e di perdonare.
«L’immaginario collettivo ha perso la forza propulsiva di una volta e non c’è un’agenda sociale condivisa. Ecco perché risentimento e nostalgia – scrive il Censis – condizionano la domanda politica di chi è rimasto indietro(…). L’onda di sfiducia che ha investito la politica e le istituzioni non perdona nessuno: l’84% degli italiani non ha fiducia nei partiti politici, il 78% nel Governo, il 76% nel Parlamento, il 70% nelle istituzioni locali, Regioni e Comuni. Il 60% è insoddisfatto di come funziona la democrazia nel nostro Paese, il 64% è convinto che la voce del cittadino non conti nulla, il 75% giudica negativamente la fornitura dei servizi pubblici. Non sorprende che i gruppi sociali più destrutturati dalla crisi, dalla rivoluzione tecnologica e dai processi della globalizzazione siano anche i più sensibili alle sirene del populismo e del sovranismo. L’astioso impoverimento del linguaggio rivela non solo il rigetto del ceto dirigente, ma anche la richiesta di attenzione da parte di soggetti che si sentono esclusi dalla dialettica socio-politica».