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Tempo al tempo

Un reportage di un inviato molto speciale dal Festival della Scienza di Genova. Un festival che (non) lascia il tempo che trova. Entrano così in “contatto” temi cari a TESSERE: il tempo, appunto, la memoria, le energie, la consapevolezza, le idee, le relazioni, gli amori. Dunque: tempo al tempo.

Un reportage di un inviato molto speciale dal Festival della Scienza di Genova. Un festival che (non) lascia il tempo che trova. Entrano così in “contatto” temi cari a TESSERE: il tempo, appunto, la memoria, le energie, la consapevolezza, le idee, le relazioni, gli amori. Dunque: tempo al tempo.

Contatti era il sottotitolo della XV edizione del Festival della Scienza che si è svolta a Genova. Il contatto cercato dall’uomo con se stesso e l’infinito, il contatto creato e distrutto dalla parola, quello forse per sempre irraggiungibile con l’origine dell’Universo – se c’è; e molti altri tra i quali circa 200.000 presenze nelle due settimane in cui si è tenuto l’evento.

Scegliendo tra le conferenze a disposizione nei due giorni che ho passato in città mi sono un po’ fortunosamente ritagliato un tema più specifico cercando un ambizioso contatto con il Tempo. Ne sono stato contaminato a tal punto che non mi verrà naturale, scrivendo queste impressioni, trattare le conferenze in ordine cronologico. Anzi forse non ve ne sarà alcuno – che ora io sappia. Lo dico giusto per dare un breve anticipo di quanto del futuro, nel fuggevole presente, già memoria, credo di sapere già.

Ha avuto origine l’Universo? Quando? Ha senso parlare di un quando e se sì, fino a quando? O fino a dove? C’è o non c’è lo spazio-tempo? Noi, cosa sentiamo?

Erano queste le domande che mi seguivano come una nuvoletta di elettroni quando sono entrato negli splendidi saloni del Palazzo Ducale, intimidito come un selvaggio con la sveglia al collo.

Ma questo stato d’animo è durato poco e fortunatamente era del tutto tutto passato quando ho varcato la soglia della Sala del Minor Consiglio per ascoltare Neurobiologia del Tempo. Forse perché venivo da Liberate il vostro cervello. Coltivare la saggezza attraverso la Neuroergonomia e da L’Universo questo sconosciuto. Ciò che (non) sappiamo su tempo e spazio. Come dire: Rilassati, sei a casa, nel tempio del dubbio….

Pochi, invece, sembrava averne il relatore di Parole, contatti, strutture, destrutturazioni. La parola che crea e che distrugge contatti e che è riuscito a non farmi andare fuori tema con tre brevi notazioni: «I racconti sull’origine dell’universo – e quindi dello spazio e del tempo – menzionano sempre il suono come fondamento dell’essere distinto dal nulla». E poi: «È venuto meno ogni contatto in riferimento ad un’organizzazione gerarchica dell’universo» e infine, per chiudere, alleggerendo: «Caratteristica dell’uomo è l’ansia. L’ansia termina con la morte. Le prospettive sono soltanto due. Il ritorno all’indifferenziato leopardiano o quella teologica dell’atemporalità».

L’ultima conferenza, che poi è stata la prima cui ho partecipato, Universo reale e Universo virtuale è rimasta più su tale secondo registro, nessuno ha fatto domande ai relatori e tutti, si capiva, non attendevamo che i saluti. La menziono solo nel caso queste mie impressioni dovessero valere anche quale recensione – del tutto parziale – del Festival: per quanto ho potuto vedere ben organizzato, pubblico educatissimo e partecipe, traduzioni simultanee efficaci, call center cortese, relatori accattivanti nella maggioranza dei casi e sempre disponibili.

Tornando al tema nel tema non ho potuto che notare fin dall’inizio che questo breve viaggio stava dando segnali di particolari coincidenze temporali. Non solo alla stazione di Pisa per treni sempre puntualissimi. Non tanto per il materializzarsi nel mio scompartimento di un vecchio, vecchissimo amico che frequentavo in Sicilia da ragazzo assieme ad un altro proprio di Genova. Sicuramente per quella più scenografica, a sera, sui gradoni del Palazzo Ducale, essendomi seduto proprio accanto alla stessa persona che avevo di fronte su quello stesso treno. Sincronie o sincronicità?

Anche l’esperto di neuroscienze che consigliava di liberare il cervello ha introdotto il tempo nella sua relazione quale fattore nella formula della conoscenza, che si scriverebbe

f(K)=A*t

dove il flusso K (Knowledge, la conoscenza) è funzione dell’attenzione e del tempo. E dove tempo e attenzione sarebbero le componenti – le più tangibili, aggiungerei – dell’amore. Non c’è conoscenza senza amore, la conoscenza è amore. Una formula sorpendentemente romantica!

Mi sembra però che necessiti di un correttivo per generalizzarla un po’, facendola uscire dai gabinetti di studio: il fattore 1/P, dove P sta per Prassi.

Per quanto tempo ed attenzione possiamo dedicare alle nostre attività non ci sarà mai incremento di conoscenza se infilati in una prassi, in una procedura standardizzata, in una mansione che non non veda un risultato, un frutto apprezzabile del lavoro. C’è sicuramente amore in ogni formula che ho visto passare fugacemente – per rispetto dei presenti – sui maxi schermi.

C’è impegno, studio, fantasia, rigore, sacrificio, dedizione, entusiasmo e certamente tempo. Anche in quelle che non lo considerano e che sono molte tra quelle della fisica. Perché non descrivono la realtà in base al suo trascorrere, ma quale flusso di eventi, interdipendenze, relazioni, contatti, per tornare anche al tema principale della rassegna. E così il cerchio si chiude. Anzi si chiuderebbe.

Se il tempo nelle equazioni non c’è vuol dire che non abbiamo bisogno di descriverlo perché immanente o perché è descritto quale relazione, implicitamente? Nella grana quantistica che ribolle fredda di interazioni imprevedibili è davvero plausibile sentire un tic-tac? Pare di no. E allora questo tempo lo buttiamo via?

Mi pare di vedermi davanti ad un cassonetto dell’indifferenziato leopardiano con questo rifiuto che non riesco a qualificare mentre l’autobus mi passa davanti – ponendomi di fronte ad un ormai incolmabile ritardo. E così mi sorge spontaneo pensare che l’atemporalità caratterizzi anche l’indifferenziato che non sarebbe solo il ritorno nel ciclo delle cose, se l’ho bene inteso. Lo sarebbe solo se ci fermassimo al senso comune.

L’indifferenziato invece occorre quantistico; è la categoria ultima di cui la vita (con il suo tempo) sembra essere mera – e comunque, per noi, sorpendente – approssimazione sensoriale. Non sarebbe quindi l’atemporalità che distingue le due prospettive che ho prima citato. Anzi, le caratterizzerebbe entrambe. E la sua assenza è, se non motivo, forse davvero lo spazio-tempo dell’ansia.

Ma non c’è spazio, né tempo, adesso, per queste divagazioni. Nemmeno le parole giuste. Mancano ancora. Forse solo la poesia e le altre arti visive possono darci qualche immagine che in qualche modo venga da lì.

Cosa ci resta quindi della nostra realtà se le togliamo il tempo? Niente, probabilmente. E come si resta sgomenti talvolta dopo certe assenze improvvise del pensiero! Dov’eravamo? In quale tempo? In quale spazio? In un brivido di follia?

Improvvisamente mi pare che così accada in quanto di quel frangente che sento infinitesimo latiti la memoria e che la memoria sia composta da immagini di tempo salvate in dati decadenti secondo la nostra biologia. Non memorizziamo il presente. È il presente ad essere già stato memoria.

Uno solo tra i relatori – neurochirurgo italiano, ma svizzero di adozione – si è quasi irrigidito davanti a questa perdita del tempo. Ed ha chiamato in causa Kant per combattere Quant. Per convincerci che il tempo esiste. E secondo me le ha prese, seppur uscendo di scena pensando il contrario. Ma solo perché, mi pare, non abbia colto che l’uno in fondo non contraddice l’altro: il tempo esiste, ma non sempre. Dipende.

Se il tempo pende da un senso che in qualche modo abbiamo non possiamo non farci cogliere immediatamente dal dubbio che come gli altri non possa che essere limitato; che sia limitata la sua capacità di percezione o meglio che quest’ultima sia una frazione di uno spettro più ampio.

Come avviene per il tatto o l’udito e certo più evidentemente per la vista: un’interpretazione riduttiva di ciò che (non) c’è proiettata dietro la nuca, capovolta e trasportata da nervi incrociati capaci di una compressione dati tale da far sbiadire le prestazioni dei più potenti zippatori free download. E quanta qualità si perda nella compressione lo sappiamo dai nostri CD musicali: che differenza tra il loro ascolto e quello della musica dal vivo!

Non possiamo decifrare l’infrarosso, nemmeno le onde radio o i raggi gamma. Vediamo una frazione di luce: ce n’è molta di più. Così in qualche modo potrebbe essere per il tempo in cui ci sentiamo immersi: la condizione di un procedere superficiale su un mare profondissimo e inaccessibile ben prima dei suoi abissi.

Siamo tutti sulla stessa barca. Il cervello introduce e comprime il tempo per mostrarci un presente in cui ci si possa orientare, prendendo rischi, decisioni, o disorientare non prendendone alcuna.

La luce viaggia più velocemente del suono e sarebbe particolarmente strano vedere qualcuno che ci parla chiudere la bocca prima di finire di parlare (prima che il cervello elabori le ultime variazioni del mezzo increspato che unisce e separa emittente e ricevente).

Certo si può obiettare che ci si abitui a tutto. Il tempo si impara? Mi arrendo a questa suggestione di cui trovo conferma semplicemente nel dover gestire il tempo della colazione o del gioco dei miei bambini. Non ho ricordi precisi se non di una crescente dimestichezza – nel tempo della mia crescita – nel rendermi conto degli ulteriori e massimo cinque minuti concessi per il gioco o alla lettura prima di dovermi lavare i denti e andare a letto.

Per quanto ci attraggano la stabilità e le certezze tutto invariabilmente muta. E forse è alla percezione di questo continuo mutamento che diamo il nome Tempo.

Appena credi di averlo avvicinato fugge via. Infatti il tempo percepito non è il tempo misurato ed anche questo muta molto più di quanto possiamo renderci conto in base a interazioni estremamente complesse.

Al nostro livello il tempo passa più lentamente al crescere della velocità – relativa in uno spazio relativistico. Passa più lentamente avvicinandosi a corpi dotati di maggiore massa. Quindi, relativamente, si allunga al mare e si riduce in montagna, anche se le vacanze volano comunque.

Ci sono orologi che riescono a misurare queste differenze. I nostri piedi si muovono in un tempo impercettibilmente più lento di quello in cui lampeggiano i nostri neuroni. A livello quantistico non ci sarebbe distinzione tra passato, futuro e presente. D’altra parte ciascuna particella c’è e non c’è, ne misuriamo una probabilità; è fluttuazione del vuoto e interagisce con particelle potenziali e quindi con se stessa. La Treccani la definisce autointerazione.

Quindi il tempo c’è, ma non c’è perché sarebbe una tiranna sfocatura della realtà. Per sintetizzare, il modo in cui percepiamo l’entropia.

Per approfondire suggerisco urgentemente la lettura de L’ordine del Tempo di Carlo Rovelli. Durante le conferenze sono stati citati, oltre a Kant, Platone, Leibniz, Cartesio, Sant’Agostino, Galileo, Newton, Einstein, Plank, molti altri.

Certo comprendere il Tempo è una sfida scientifica, ma maggiormente è un’esigenza innata. La ricerca di una maggiore consapevolezza. Che sia anche quest’ultima una sfocatura? Ci vorranno ancora tempo ed attenzione per comprendere. Se non altro per meditarci su.

Mi torna in mente l’articolo di Gilberto Briani scritto qui su TESSERE in occasione dell’incontro col Dalai Lama: vacuità e vuoto quantistico si somigliano: i fenomeni (noi, il tempo) sono privi di esistenza intrinseca, e ciò non significa che non esistano, ma solo che non sono entità autonome e indipendenti. Tutto è relativo, interdipendente, in relazione, in contatto. E questo contatto mi appare privo di esistenza intrinseca, più che probabile, disponibile, collettivo.

Sono arrivato al Festival con la sveglia al collo e ne sono uscito forse ancora più ridicolmente con due orologi atomici – uno alla caviglia ed uno sulla fronte – che misurano tempi differenti, ma con una grande e sovversiva verità: possiamo finalmente dimostrare che è sotto la panca che la capra campa perchè sopra crepa un po’ prima.

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