Non pago d’aver puntualmente spiegato – per tramite della ottima penna di Francesca Serafini – le difficoltà, e il perché delle difficoltà, che incontra il linguaggio, o meglio gli esseri umani servendosi del linguaggio, nel momento in cui si tratta di gironzare tra peni e vagine, cazzi e fiche, varianti dialettali o iperboliche dello scopare e del far l’amore – encomiabile impresa condotta con l’articolo Il vocabolario infinito ed effimero del sesso, di cui abbiamo dato conto qui nell’articolo Se cazzo e fica si affacciano nella Treccani – l’autorevole Istituto dell’Enciclopedia italiana ha messo a disposizione di chi intende trattar la materia senza la volgarità d’un postribolo o di un’osteria e neppure come se si stesse algidi e compassati ad un convegno di andrologi e ginecologi, un Glossario d’autore, ovvero sia un piccolo repertorio non di come gli scrittori si siano destreggiati nei momenti più piccanti delle loro descrizioni letterarie, ma di cosa s’inventerebbero dovendo esplicitamente scegliere fra trombare e far l’amore.
Una sorta di “gioco letterario”, dunque, condotto proprio da Francesca Serafini che è andata a chiedere direttamente a molti di loro – ci sia consentito di scriverlo malgrado la sfumatura maschilista – di “vergare” una parola inventata di sana pianta e di darne spiegazione.
Il gioco è aperto, dice l’autrice, l’esperimento è “in progress”, disposto ad accogliere quanti «in futuro vorranno contribuire». E per intanto Francesca Serafini ha raccolto le risposte di 20 scrittori e di sole 3 scrittrici, per un totale di 23 parti lessicali con relative delucidazioni a seguire. Seguendo l’ordine alfabetico delle loro offerte linguistiche, gli intervistati sono: Carlo D’Amicis, Ivano Bariani, Roberto Alajmo, Wu Ming 1, Giacomo Lopez, Giuseppe Genna, Ottavio Cappellani, Alessandro De Roma, Gianni Mura, Mario Desiati, Attilio Del Giudice, Rosa Matteucci, Piersandro Pallavicini, Luca Ragagnin, Melissa Panarello, Francesco Piccolo, Sandro Veronesi, Aldo Nove, Emiliano Poddi, Roberto Carvelli, Edgardo Franzosini, Giorgio Vasta, Mariolina Venezia.
Dai loro suggerimenti vengono fuori, al posto di far l’amore o scopare, neologismi, ripescamenti, adattamenti e voli pindarici, più o meno spinti e più o meno trattenuti, che noi riproponiamo accompagnandoli con un’immagine ossessiva di Giovanni Tagliavini riproposta fino a concluderla.
Iniziamo da Alessandro De Roma che invita ad arrendersi: fare l’amore, «non ci sono alternative», dice.
Gianni Mura gli dà ragione, ma ipotizza la variante fare all’amore. Nella sua bella e variegata spiegazione del fallito tentativo di «proporre una parola nuova di zecca», segnala la variante ascoltata a Gravedona nel comasco: «Bela tosa ven scià ca t’adopéri». È questa la voce dialettale lombarda, scritta però t’aduperi, (ti adopero) che propone anche Edgardo Franzosini, il quale dice che l’espressione evoca una laboriosa, sobria e programmatica concretezza ed anche «l’immagine di prestazioni scrupolose ma uniformi, vigorose ma cupe», sottintendendo l’idea di «esistenze particolarmente assillate dal problema di non perdere tempo».
Contrari all’invenzione di termini nuovi anche Francesco Piccolo e Sandro Veronesi, entrambi però orientati a salvare scopare anziché come De Roma e Mura fare l’amore. «Scopare va benissimo afferma con decisione Sandro Veronesi –. Non vedo cosa ci sia che non vada. Scopare. Va bene con amore e va bene senza, scopare va bene sempre. La soluzione è scopare».
Gli fa eco Francesco Piccolo che rincara la dose proponendo di «usare scopare anche in tv in qualunque fascia oraria». Dice che non c’è alcun bisogno di «usare una parola diversa da quella necessaria» e che questo verbo «non è volgare, è preciso», perché include «anche qualcosa che paradossalmente veniva tenuta fuori: l’eccitazione». Finalmente, sentenzia, adesso si “scopa” anche con gli innamorati, cosa di cui un tempo ci si vergognava.
Fermo all’esistente anche Roberto Alajmo, il quale consegna un’invettiva contro l’abuso del cazzo, affermando che «man mano che nella vita reale è passato a esprimere ogni esclamazione, anche la più futile, in letteratura è quasi scomparso. Persino in quelli che un tempo si definivano Sega Books […]» ormai ammoscianti. Perciò auspica «una duplice moratoria, della parola nella vita reale e dei suoi sinonimi in letteratura. Di modo che il cazzo torni a valere per ciò che in fondo è sempre valso: un cazzo».
Il migliore di tutti, impareggiabile, soprattutto dati i tempi, è a giudizio di chi scrive Piersandro Pallavicini che alla prima gli è venuto in mente lavorare, verbo che ha sottoposto a quella che Marx chiamava «la critica roditrice dei topi» e lui «la prova di un paio di settimane di digestione»: «ancora mi pare ottimo. – scrive – Lo userei volentieri in un romanzo dove si lavorasse tanto. Lo trovo così poco maschilista e così poco meccanico, finalmente. Contiene anche, ironicamente, il lavoro, la fatica che si fa nel fare sesso, quando si decide di non occuparsi solo di se stessi ma anche dell’altra/o. Il piacere altrui è il prodotto del nostro lavoro. E c’è dentro anche questa idea di artigianato, di cosa fatta con i propri mezzi, di movimento continuo e ripetuto. Guarda, più ne scrivo e più lavorare mi piace». Complimenti Piersandro Pallavicini.
Ex equo verrebbe da indicare lo stampare di Roberto Carvelli, vuoi per un antico amore verso questa attività e ciò che essa ha comportato per l’umanità, vuoi per la spiegazione che l’autore ne dà: «A dispetto del carattere percussivo della parola, mi emoziona ricordare che con un gesto di semplice impressione vengano tradotti, in una concretezza che non svapora, fatti emotivi e immateriali. Succede così, in una stamperia o con l’Atto Primo. Anche questo ultimo, infatti, ha una sua meccanica che traduce e riproduce, con regole tipografiche sue, più o meno sofisticate, desideri, intenzioni e anche un po’ di futuro. Effetto e causa di emozioni. I siciliani usano persino la locuzione “stampare un bambino” e tutto lascia pensare che, anche nella apparente serialità della parola, sia possibile riprodurre pezzi e idee uniche, non numerabili. Indimenticabili». Anche qui, complimenti.
Già Gianni Mura, citando l’adoprare e per suo tramite l’impiego degli attrezzi, si era aggirato nel mondo del lavorare suggerito da Piersandro Pallavicini ed in quello delle tecniche o dei mestieri proposto da Roberto Carvelli, ed anche Emiliano Poddi e Carlo D’Amicis invitano a dirigersi in quelle direzioni.
Il bel verbo sprimacciare, impiegato nel linguaggio tessile per indicare il separare le fibre e prepararle alla filatura, viene sapientemente strapazzato da Emiliano Poddi che ad esso attribuisce il significato di «fare l’amore con l’impaccio della prima volta, e con la stessa frenesia tattile» se usato in forma intransitiva e di «sbatacchiare il partner, la moglie, il fidanzato e simili perché l’amore che li riempie si distribuisca uniformemente al loro interno» se usato in forma transitiva.
Carlo D’Amicis punta invece sulla musica con il verbo accordare. Impiegherebbe questo verbo transitivo perché scomponendolo (a-ccor-dare) dice dell’offerta cardiaca, e perciò sentimentale, percepibile nel coito, avendo inoltre un sentore «di armonia, di complicità», un suono come quello degli strumenti che cercano la giusta misura e il giusto tono così come i corpi che unendosi emettono la propria musica ed infine il rimando a «un dono che arriva da un’entità superiore (Dio, la natura o la felicità della chimica) nell’accezione accordare una grazia».
A un altro strumento – l’obiettivo pancratico per usi fotografici, cinematografici e televisivi, capace di variare con continuità fino a limiti piuttosto ampi come può essere un 1:5, che va sotto il nome di zoom – attinge Mariolina Venezia proponendo il verbo zummare che lei intende «nel senso di avvicinarmi, anche parecchio», comprendendoci anche «quel zum zum festoso di quando ero piccola, almeno io» ed infine «lo sfondamento morbido della doppia “m”».
Registri diversi hanno usato le altre due scrittrici che hanno partecipato al gioco. Rosa Matteucci gioca tra il dialetto orvietano – dove, con un ch “duro”, la fica è detta chica –; le «metafore settecentesche tipo: “egli si avventurò nel boschetto di venere…”» da lei predilette; e l’approccio forse d’un maghrebino che, facendola tanto ridere e altrettanto pregustare la «ghiotta metafora», le propose «tu fumare sigaretto di cazzo?», per suggerire inchicare come alternativa all’arduo quesito posto da Francesca Serafini.
Con non molta fantasia Melissa Panarello si rifà ai personaggi dei fumetti ideati nel 1958 dal fumettista belga Peyo ed al loro asciutto linguaggio a cui Umberto Eco nel 1979 ha dedicato il saggio Schtroumpf und Drang: i Puffi (Les Schtroumpfs). E dunque che lo si faccia alla pecorina, per giurar fedeltà eterna, di soppiatto o per mercimonio, la soluzione è puffare. Del debito dà conto, ed in quella spiegazione forse c’è il perdono a tanta piattezza creativa, specie quando afferma: «Puffare tutti insieme in allegria è una cosa difficile da fare ma auspicabile per tutto il mondo intero proprio». Applausi.
Con un raccontino di 10 righe e 59 parole riguardo il concilio incaricato di «liberare almeno un semantema dallo stato di indecenza e conferirgli un titolo nobiliare», durante il quale «fu decisivo l’intervento del giudice Eros Della Glossa», Attilio Del Giudice taglia la testa a trombare, scopare, chiavare e fottere rendendo vincitore fottamare. Che, se detto a Napoli, forse avrebbe un altro significato.
Verbo composto ancora con l’originale amare anche per Ivano Bariani che propone l’amorare, «meno vezzeggiante di amoreggiare» e con rimandi ad amorale e ad adorare. «Così – spiega – avremmo l’amante, colui che ama, e l’amorante, colui che amora, cioè ti fa l’amore».
Combinazioni linguistiche le propongono anche Wu Ming 1, Giacomo Lopez e Giuseppe Genna.
Il primo si affida alla trasparenza etimologica ed alla sonorità, anche sincopata spostando l’accento sulla seconda sillaba, di congodere.
Giacomo Lopez propone erosare, mescolando “eros”, “osare”, “erosa” (da erodere: erodere «la sfera invisibile e forte che separa un corpo dall’altro») e “rosa”.
Servendosi di una filosofica e poetica e un po’ ampollosa definizione Giuseppe Genna indica erotrascendimento.
Calembourando o ad altri giochi di parole attingendo, Luca Ragagnin intitola poescopare il suo riadattamento del più noto e conciso verso di tutti i tempi: «M’illumino d’imene».
Ottavio Cappellani si appella al dialetto. Siccome in siciliano anice si dice zammù e l’acqua in cui sia stata versata qualche goccia di anice sembra sperma, per “far l’amore” Cappellani propone fare acqua e zammù.
Anziché al siciliano Mario Desiati si affida al pugliese ed al posto delle luci rosse a quelle azzurre. Le impiega nell’espressione barese fare luce azzurra, alludendo al foglio di velina di quel colore messo su una lampadina all’esterno dei lochél, “sottani” o garage dove gli adolescenti fanno le loro prime esperienze per segnalare l’inagibilità momentanea dell’alcova.
Anziché in cantina, Aldo Nove invita a spostarsi in soffitta, anzi, nel solaio, questa è la parola che propone, perché «è il posto dove si tengono le cose segrete», anche quelle «vecchie che non si usano più, ma funzionano benissimo nella funzione di nascondere le cose di cui non si può parlare». A questo termine dà il significato corrispondente in gergo tecnico inglese a “pissing” e a “water sports”. Con un’ardua concatenazione logica scrive: «Unendo i due termini anche chi non ne sa nulla dovrebbe intuire. A me la pipì piace molto e anche a Mozart piaceva uguale».
Conclude il tema, secondo la celebre strofa di un altrettanto celebre canzone dei celeberrimi Giganti, Giorgio Vasta. È l’ultimo, in ordine alfabetico, a rispondere al quesito di Francesca Serafini per conto della Treccani per trovare la terza via tra scopare e far l’amore.
Ti-tubo, propone Vasta, «espressione polisemica che ha l’ambizione di compendiare più accezioni, anche simultanee». Queste sono affidate all’accentazione, sulla “ì”, títubo, o sulla “ù” con l’impiego di uno spazio ti tubo. Nel primo caso si esprime «quella dubbiosità pudica, quell’esitazione tenera – una cavalleresca forma di rispetto – del maschile verso il femminile, e viceversa». Nel secondo si annuncia, «più o meno aggressivamente, l’intenzionalità dell’azione erotica al suo destinatario». Aggiunge Vasta: «più che in filigrana, intanto, si scorge il sottinteso idraulico, il sesso configurato come reticolo complesso di serpentine atte alla veicolazione di fluidi». Ma ancora, dice è percepibile il legame «la riproducibilità e la condivisione delle immagini» via web, «su apposito canale You Tube» nel quale, quarto ed ultimo significato titubare «dolcemente e bestialmente», con un rimando «al gutturale verso eroicomico dei colombi in amore, lo stesso feroce continuo borborigmo di ogni combustione amorosa».
Si legga l’articolo originale di Francesca Serafini nel sito della Treccani e chi avesse particolare fantasia ed estro partecipi al gioco. Sia esso linguistico o erotico. Per non dir di entrambi.