Maschilismo, femminismo? Non mi appassionano: sia pure assessore o assessora purché lei o lui facciano e rispettino impegni e programmi. La premessa non mi impedisce tuttavia di riconoscere che il vocabolario e il parlare quotidiano sono fortemente orientati al maschile. Specialmente quando l’epiteto volge al negativo. Mi sovviene solo un sostantivo per l’indicare il maschietto dedito a frequentazioni che la senatrice Lina Merlin si ingegnò ad impedire. Il sostantivo puttaniere, declinato al femminile, riunisce invece una infinità di termini che variano da luogo a luogo e perfino da periodo a periodo.
Ai tempi di Veronica Franco (nella foto), poetessa veneziana del Cinquecento, le cortigiane si distinguevano in oneste e di lume. Lei appartenne alla categoria delle oneste anche se il lume lo spense spesso e volentieri. Nel tempo si è passati a espressioni del tipo “donna di facili costumi”, “signora generosa”, “femmina di malaffare” (soprattutto nei confessionali di “Santa romana chiesa)”, “donna di piacere” (nei bordelli aristocratici del regime), «quella che di notte stabilisce il prezzo alle tue gioie», addirittura censurato ed addolcito in «pubblica moglie» (Fabrizio De André).
Tutta roba con significati inequivocabili e in tutto e per tutto simili alla infinita serie di sostantivi di uso corrente, usciti da sotto le lenzuola. Ha fatto specie, a lungo, pronunciare parole che sottendevano pratiche frequentissime ma conservare tra le ristrette mura del piacere. Così i borghesi della lingua, spesso grandi puttanieri, hanno usato il classico meretrice o il colto e raffinato Taide, in memoria della discinta protagonista di una commedia di Terenzio. E quelli più illuminati sono giunti perfino al più plebeo prostituta, un termine legato da parentela col verbo prostituirsi che ha poi trovato largo uso in politica anche e soprattutto nella sua declinazione al maschile.
A mezza strada tra la plebe e l’aristocrazia del lessico, sta il termine puttana con le variazioni puttanella (di giovane appetibile) e puttanone (di signora esperta ma, come si dice, in mancanza di meglio…). Larghissimo è ormai l’uso del vocabolo che ha avuto, unico e solo, l’onore di un corrispettivo maschile (puttaniere appunto). Non hanno avuto la stessa fortuna i sostantivi troia, bagascia o baldracca, privati degli inesistenti maschili troio, bagascio o baldracco. Mentre al maschile hanno ben altro significato altri appellativi non infrequenti per le donnine. Del tipo maiala, zoccola o budello (usato anche all’accrescitivo e cioè budellone).
Molto maschilista è anche la tendenza ad apostrofare il genere femminile facendo riferimento all’aspetto fisico. In questo caso grande riferimento è alla fauna. Possiamo trovare vacca di donna che abbonda in adipe e magari anche un po’ generosa, cammellona o cavallona, detto di ragazza alta, sgraziata e poco appetibile, civetta soprattutto di giovane dall’andatura sculettante, tesa a richiamare attenzioni che di solito non approdano ai porti del piace, vipera ovvero una gonnella da evitare per non essere morsi, cagna che è epiteto pessimo: roba brutta e indesiderabile pur di fronte ad un possibile e facile abbandono.
In nessuno di questi casi esistono corrispettivi maschili: non esiste vacco, non cammellone, non civetto o gufo che sia, non vipero, non cane con lo stesso dispregiativo significato.
Storia culinaria è quella di tegame, con le varianti tegamone o tegame smanicato. Roba tipicamente livornese che associa, all’inequivocabile significato, anche un tocco di umorismo da sagra di paese.