LA DATA

12 marzo 1956

Oggi sarebbe il compleanno di Pia Pera, se non se ne fosse andata in un giorno di luglio di tre anni fa, a soli sessant’anni. Lei – scrittrice, saggista, traduttrice dal russo – aveva fatti dei giardini luoghi di bellezza, di epifanie, di scoperte filosofiche, in quell’angolo di Lucchesia in cui aveva scelto di trascorrere i suoi ultimi lustri. Qualcuno, anzi molti la conoscevano già per i romanzi: La bellezza dell’asino, raccolta di racconti onirici pubblicata da Marsilio nel 1992 o Il diario di Lo (sempre Marsilio, 1995), racconto dal punto di vista di Lolita della vicenda narrata da Nabokov (che le procurò molti riconoscimenti e un bel po’ di grane legali, visto che il figlio dello scrittore finì per denunciarla per «appropriazione indebita del personaggio» e la costrinse a ritirare il libro). A Pia, inguaribile utopista, passò la voglia di scrivere romanzi, per dedicarsi ad un’indagine interessante e curiosa su un esperimento di vita comunitaria, nato in Provenza nel 1972 e poi diffusosi in molti Paesi europei. Ne nacque un libro, pubblicato da Baldini & Castoldi nel 2000, L’arcipelago di Longo maï.

Il caso volle, poi, che Pia Pera ereditasse una casa appena fuori Lucca, la sua città natìa, alle pendici di una collina. Fu un nuovo inizio: da principio, la scrittrice pensava di usarlo come luogo di fuga dalla frenesia milanese; in seguito, soprattutto il giardino – da anni incolto – l’attirò definitivamente. Sistemò il casolare, trasformandolo in una splendida casa colma di libri e quadri. Il giardino era un’altra questione: in quegli anni, Pia scoprì i lavori del botanico e filosofo giapponese Masanobu Fukuoka (1913-2008), pioniere dell’agricoltura naturale e del  “non fare”. Il suo libro-manifesto La rivoluzione del filo di paglia (LEF, 1980) s’ispira al concetto del Mu, che in giapponese vuol dire “senza” oppure “nessuno” ed è uno dei nuclei fondativi del Buddismo Zen: un universo in costante flusso, in cui ogni evento avviene spontaneamente. Pia Pera pensò al Mu per il suo giardino, coniugandolo con un po’ di buon senso locale, affidandosi anche all’intuito, alla fantasia.

Da quel regno, fatto da centinaia di varietà di fiori, verdure e piante, qualcuna recuperata da semi antichi fatti giungere da una banca londinese (e già questa sarebbe una storia affascinante), Pia prende a scrivere nuovi libri colmi di magia: da L’orto di un perdigiorno. Confessioni di un apprendista ortolano (Ponte alle Grazie, 2003; TEA, 2015) ad opere più mature e complesse, come Il giardino che vorrei (Electa, 2006; Ponte alle Grazie, 2015). Intanto, mantiene i contatti con i “guerrilla gardens”, gruppi che – nelle città – compiono semine clandestine in spazi abbandonati, o collabora con Gianna Nannini, componendo tutti i testi di un’opera rock, Pia come la canto io, ispirata a quella Pia de’ Tolomei, protagonista del Quinto Canto del Purgatorio. Pubblica persino un manuale contro i mali del vivere contemporaneo, Giardino & ortoterapia. Coltivando la terra si coltiva anche la felicità (Salani, 2010).

Neppure la malattia, sclerosi laterale amiotrofica, blocca la sua simbiosi con la terra: «È cresciuta l’empatia. – scrive – La consapevolezza che, non diversamente da una pianta, io pure subisco i danni delle intemperie, posso seccare, appassire, perdere pezzi. Non sono più un osservatore esterno». Tutto ciò è raccontato in un volume, forse il più bello tra le opere di Pia, Al giardino ancora non l’ho detto (Ponte alle Grazie, 2016), vincitore del premio Rapallo: il diario di una discesa, un testamento prezioso tra equilibrio e fatalità.

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