LA DATA

15 aprile 1967

Un morto, tre funerali

Totò, pseudonimo di Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio Gagliardi Focas di Tertiveri: «Tengo molto al mio titolo nobiliare perché è una cosa che appartiene soltanto a me… A pensarci bene il mio vero titolo nobiliare è Totò. Con l’altezza imperiale non ci ho fatto nemmeno un uovo al tegamino. Mentre con Totò ci mangio dall’età di vent’anni. Mi spiego?»

Il principe avrebbe voluto un funerale semplice e invece gliene toccarono tre… ‘na fatica!

La sera del 13 aprile all’autista, Carlo Cafiero, che lo accompagnava a casa a bordo della sua Mercedes,Totò confessò: «Cafie’, non ti nascondo che stasera mi sento una vera schifezza». Totò fece in tempo a consegnare al suo cugino e segretario Eduardo Clemente 120 mila lire per le esequie, raccomandandosi che tutto fosse fatto con quella cifra, dunque con semplicità. Il punto è che poi mormorò «portatemi a Napoli», mettendo una pietra sul proposito di sobrietà. Alle tre e trenta del 15 aprile 1967, Totò muore…

Primo funerale.

La mattina del 17 aprile venne trasportato nella chiesa di Sant’Eugenio in viale Belle Arti. Sulla bara, la bombetta con cui aveva esordito e un garofano rosso. La cerimonia si limitò a una semplice benedizione, a causa delle difficoltà create dalle autorità religiose perché con Franca Faldini non era sposato. Tra le personalità dello spettacolo presenti, all’interno della chiesa si notarono Alberto Sordi, Elsa Martinelli, Olga Villi, Luigi Zampa e Luciano Salce.

Secondo funerale

Non ci fu tempo neppure per un caffè. Dopo il funerale romano della mattina, il feretro partì alla volta di Napoli. Il 17 aprile di pomeriggio il feretro partì verso la città, scortato da circa trenta vetture. Napoli sospese ogni attività dalle 16 alle 18,30: fu interrotto il traffico, i muri delle strade furono riempiti di manifesti di cordoglio, le serrande dei negozi vennero abbassate e socchiusi i portoni degli edifici in segno di lutto. A causa della grande affluenza, il furgone che trasportava la salma impiegò due ore per raggiungere la chiesa di Sant’Eligio, dove si svolsero i funerali di fronte alla folla traboccante: centomila persone lo stavano aspettando sul piazzale davanti la chiesa.
L’orazione funebre venne tenuta da Nino Taranto:

«Amico mio, questo non è un monologo, ma un dialogo perché sono certo che mi senti e mi rispondi, la tua voce è nel mio cuore, nel cuore di questa Napoli, che è venuta a salutarti, a dirti grazie perché l’hai onorata. Perché non l’hai dimenticata mai, perché sei riuscito dal palcoscenico della tua vita a scrollarle di dosso quella cappa di malinconia che l’avvolge. Tu amico hai fatto sorridere la tua città, sei stato grande, le hai dato la gioia, la felicità, l’allegria di un’ora, di un giorno, tutte cose di cui Napoli ha tanto bisogno. I tuoi napoletani, il tuo pubblico è qui, ha voluto che il suo Totò facesse a Napoli l’ultimo “esaurito” della sua carriera, e tu, tu maestro del buonumore questa volta ci stai facendo piangere tutti. Addio Totò, addio amico mio, Napoli, questa tua Napoli affranta dal dolore vuole farti sapere che sei stato uno dei suoi figli migliori, e che non ti scorderà mai, addio amico mio, addio Totò».

Terzo funerale

Dopo quei funerali sontuosi, da vero principe, un fatto che ebbe dell’incredibile accadde alla figlia di Antonio De Curtis. Liliana fu avvicinata da uno storico “guappo” del rione Sanità, luogo di nascita di Totò (via Antasaecula) Luigi Campoluongo, meglio noto come Nase ‘e cane. Il guappo chiese alla figlia del Principe un altro funerale, da tenersi proprio alla Sanità, nella chiesa di San Vincenzo, meglio conosciuto come “Il Monacone”. Detto, fatto. Il 22 maggio il Rione Sanità ebbe il suo funerale-bis di Totò. E anche lì migliaia di persone a piangere. La bara era vuota perché la salma era già stata tumulata nel Cimitero del Pianto di Napoli.

A questo punto, l’ultima parola spetta al più caro amico del principe Totò De Curtis: Eduardo De Filippo.

«Erano più colorate le strade di Napoli, più ricche di bancarelle improvvisate di chioschi di acquaioli, più affollate di gente aperta al sorriso allora, quando alle dieci di mattina le attraversavo a passo lesto – avevo quattordici anni – per trovarmi puntuale al teatro Orfeo, un piccolo, tetro, e lurido locale periferico, dove, in un bugigattolo di camerino dalle pareti gonfie di umidità, per fare quattro chiacchiere tra uno spettacolo e l’altro, mi aspettava un mio compagno sedicenne che lavorava là. Oggi è morto Totò. E io, quattordicenne di nuovo, a passo lento risalgo la via Chiaia, e giù per il Rettifilo, attraverso piazza Ferrovia… Entro per la porta del palcoscenico di quello sporco locale che a me pare bello e sontuoso, raggiungo il camerino, mi siedo e mentre aspetto ascolto a distanza la sua voce, le note della misera orchestrina che lo accompagna e l’uragano di applausi che parte da quella platea esigente e implacabile a ogni gesto, ogni salto, ogni contorsione, ogni ammiccamento del « guitto ». Do un’occhiata attorno; il fracchettino verde, striminzito, è lì appeso a un chiodo: accanto c’è quello nero. Quello rosso, glielo vedrò indosso tra poco, quando avrà terminato il suo numero. I ridicoli cappellini… A bacchetta, a tondino… e nero, marrone, e grigio… sono tutti allineati sulla parete di fronte… Manca il tubino: lo vedrò tra poco. Il bastoncino di bambù non c’è: lo avrà portato in scena. E lì, sulla tavoletta del trucco? Cosa c’è in quel pacchetto fatto con la carta di giornale? È la merenda, pane e frittata. E la miserabile musica continua, e la sua voce diventa via via ansiosa di trasportare altrove quella orchestrina di moltiplicarla. Dal bugigattolo dove mi trovo non mi è dato vederlo lavorare, ma di sentirlo e immaginarlo com’è, come io lo vedo come vorrei che lo vedessero gli altri. Non come una curiosità da teatro, ma come una luce che miracolosamente assume le fattezze di una creatura irreale che ha facoltà di rompere, spezzettare e far cadere a terra i suoi gesti e raccoglierli poi per ricomporli di nuovo, e assomigliare a tutti noi, e che va e viene, viene e va, e poi torna sulla Luna da dove è disceso. Ora sono travolgenti gli applausi e le grida di entusiasmo di quel pubblico: il numero è finito. Un rumore di passi lenti e stanchi si avvicina, la porticina del bugigattolo viene spinta dall’esterno.Egli deve aprire e chiudere più volte le palpebre e sbatterle per liberarle dalle gocce di sudore che gli scorrono giù dalla fronte per potermi vedere e riconoscere, e finalmente dirmi: “Edua’, stai ‘ccà!”. E un abbraccio fraterno che nel tenerci per un attimo avvinti ci dava la certezza di sentire reciprocamente un contatto di razza. E le quattro chiacchiere, quelle riguardavano noi due, le abbiamo fatte ancora per anni, fino a pochi giorni fa»