LA DATA

16 settembre 1599

Singolare figura e amaro frutto dei suoi oscuri tempi quella di Celestino da Verona, frate francescano accusatore di Giordano Bruno e destinato a precederne tragicamente i passi verso il rogo in Campo dei Fiori. Proprio lì venne arso nottetempo, per evitare l’abituale concorso di folla, il 16 settembre del 1599, cinque mesi prima che il grande filosofo domenicano venisse condotto lungo lo stesso cammino «con la lingua in giova», come fedelmente ritratto dal film di Giuliano Montalto, ovvero con una sorta di morsa a museruola che gli impedisse di parlare.

Si era, a sua volta, Celestino, pericolosamente avvicinato in più occasioni alla vasta ed affascinante galassia del pensiero eretico, aveva conosciuto le prigioni del Sant’Uffizio a Roma e a Venezia, dove nel settembre del 1592 aveva avuto modo di dividere la cella nel carcere di San Domenico di Castello con lo stesso Giordano Bruno, lì trattenuto a causa della denuncia di Mocenigo, il patrizio veneziano che lo aveva invitato a stabilirsi nella sua dimora per essere avviato dal sapiente nolano all’arte della memoria e alle discipline magiche. Dalle carte del processo a Bruno, di cui con il senno di poi è difficile comprendere le motivazioni che lo spinsero ad interrompere le peregrinazioni europee per consegnarsi praticamente all’Inquisizione, si sa che Celestino gli attribuì una serie di affermazioni, destinate ad aggiungersi alle accuse già mosse in precedenza al filosofo: che l’inferno non esiste mentre esistono altri mondi nell’universo (credere il contrario è grandissima ignoranza); che morti i corpi le anime vanno trasmigrando da un mondo all’altro; che Mosè fu mago potentissimo ed i Santi dei gran furbacchioni, raccomandarsi ai quali è da stolti; che quanto detto dalla Chiesa non si può provare e che, infine, pur di non tornare nell’ordine di San Domenico era disposto a farsi eretico in Inghilterra o Germania, dove aveva lungamente soggiornato ed insegnato.

Sembra che Celestino, sospettando che il suo compagno di prigionia volesse denunciarlo calunniandolo, abbia voluto mettere per iscritto il proprio resoconto del punto di vista di Bruno sulla dottrina cattolica, cercando in qualche modo di parare preventivamente il danno. Ma è del tutto improbabile che Giordano abbia denunciato il francescano: piuttosto, nell’andamento di questa oscura vicenda si riconoscono chiaramente gli stratagemmi e le manipolazioni inquisitoriali al fine di estorcere all’individuo che poteva apparire più fragile, notizie dettagliate su un imputato la cui mente raffinata continuava a sfuggire alle maglie di quella macchina infernale. La relazione di Celestino, che non era a conoscenza dell’avvenuto trasferimento del processo da Venezia a Roma e quindi del fatale stringersi delle grinfie del Sant’Uffizio intorno a Bruno, ne aggravò notevolmente la posizione perché, oltre al nuovo carico di accuse, mise anche in dubbio la sincerità del pentimento che egli aveva manifestato fino ad allora.

Mentre dunque il lungo calvario del filosofo procedeva verso la cosiddetta Città Santa, nelle cui carceri venne tradotto nel febbraio del 1593, torturato nel 1597, invitato ad abiurare nel 1599, è solo nel giugno di questo stesso anno che si ha di nuovo notizia di Celestino, convocato dal Sant’Uffizio per chiarimenti in materia di fede, forse su sua stessa richiesta, cosa peraltro non rara in quei tempi bui: si pensi alla fobie di Torquato Tasso, alla sua compulsiva riscrittura della Gerusalemme ed alle ripetute domande di esame da parte della Congregazione.

Comunque sia andata doveva trattarsi di questione scottante e di alta importanza, non delle farneticazioni di un invasato reso folle dal terrore, perché fu lo stesso Papa ad imporre il più stretto riserbo sulla questione e ad accelerare il corso del processo, che si concluse rapido il 15 agosto. Il 17 la sentenza era già scritta, il 19 fu richiesta a Celestino, in via puramente formale, la presentazione della sua difesa ed il 24 agosto, nel segreto di un’aula, venne condannato al rogo in quanto eretico «relapso impenitente e ostinato». Nelle settimane che precedettero l’esecuzione il condannato non venne trasferito nella prigione pontificia di Tor di Nona, dove pure era recluso Giordano Bruno ma, con una procedura appositamente deliberata, ancora custodito nel palazzo dell’Inquisizione dove alcuni teologi, ai quali fu ancora imposto di conservare il silenzio su quanto avrebbe loro confidato, tentarono invano di far abiurare il frate.

Di quest’ultima fase del processo, che si intreccia strettamente a quello di Bruno ed è coperta, come si è visto, dal più assoluto riserbo, esiste solo la relazione fatta dall’ambasciatore mediceo residente a Roma, Francesco Maria Vialardi che, in una lettera al granduca di Toscana datata 27 settembre, invia un breve resoconto dei fatti dal quale risulterebbe che questo «huomo scelleratissimo» sosteneva l’dea che Gesù Cristo «non ha redento il genere humano»: tesi radicale ed oltremodo pericolosa circolante negli ambienti più eterodossi dell’eresia e confluita, a vario titolo, anche nel pensiero bruniano.