LA DATA

23 dicembre 1984

Un ragazzo e una ragazza cenano in un ristorante di Firenze, di quelli in buca, alluvionati nel ’66. Lei è giovanissima, lui è arrivato al mattino da Roma ed è andato a prenderla a scuola, hanno passato assieme la giornata. Il viaggio del ragazzo proseguirà in serata per Verona, a casa, la partenza è prevista un po’ prima di cena. Sono molto innamorati. Lei è abituata alle partenze, alla distanza, alle giornate strappate agli impegni come una bolla, in cui perdere la cognizione del tempo. Ma quel pomeriggio è inquieta, insiste: fermati anche stasera, parti domani. Lui ha un biglietto già comprato per il rapido 904 ma decide di restare, è felice del cambio di programma nonostante la madre di lei sia proprio scontenta, e non ne vuol sapere di ospitarlo: ci sarà l’ultimo treno, prenderà quello, che va al Brennero; arriverà a notte fonda e andrà a casa a piedi ma non è importante, anche se è il 23 dicembre e fa freddo. I due ragazzi restano nel locale fino alla chiusura, sempre parlando fitto fitto, le mani nelle mani, gli occhi negli occhi. Il cameriere accende la radio e si mette a spazzare, c’è un’edizione straordinaria del radiogiornale, dice che il rapido 904 è esploso in galleria, a San Benedetto in Val di Sambro. Un attentato. Morti, feriti, fuoco e lamiere, il traffico ferroviario interrotto. Il ragazzo si alza di scatto, cerca il telefono, prova a chiamare a casa sua dove lo aspettano; si fatica a prendere la linea, ma alla fine riesce, viaggerà di notte in autobus in mezzo al ghiaccio e al caos dei soccorsi. Alle 19.08 del 23 dicembre 1984, un’esplosione terribile squassa il treno rapido 904 mentre si trovava nella galleria di San Benedetto Val di Sambro, la galleria degli Appennini.

In effetti era un po’ che in Italia non scoppiava un treno, dieci anni prima d’agosto era lì che era esploso l’ordigno sul treno Italicus, causando dodici morti; solo quattro anni prima, sempre d’agosto, una bomba aveva portato via la sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna,  assieme alla vita di ottantacinque persone. La logica era sempre la stessa: colpire nei giorni di festa, quando la gente parte per le ferie o va a casa dai parenti, per fare il maggior numero di vittime possibile. Lo avevano detto chiaro, i neofascisti che avevano rivendicato l’attentato dell’Italicus: «Abbiamo voluto dimostrare alla nazione che siamo in grado di mettere le bombe dove vogliamo, in qualsiasi luogo, dove e come ci pare […] seppelliremo la democrazia sotto una montagna di morti», e la loro tecnica era piaciuta anche a chi aveva messo la bomba sul rapido 904 salendo sul treno alla stazione di Firenze, come se dovesse accompagnare un parente con una valigia troppo pesante; l’aveva collocata sul ripiano dei bagagli, poi aveva guardato l’orologio per assicurarsi di schiacciare il telecomando al momento giusto, mentre il treno era in galleria.

L’esplosione provocò subito quindici morti e quasi trecento feriti, uno dei quali morì dopo qualche tempo a causa delle ferite subite. La tecnica stragista neofascista piacque, pare, a Cosa Nostra, che voleva distrarre gli inquirenti che davano credito ai pentiti e che stavano mettendo in difficoltà la sua struttura. Cosa c’era di meglio dunque che destabilizzare il Paese con una bomba che rievocava la migliore stagione del terrorismo nero? Non a caso fu scelta la galleria degli Appennini, luogo storicamente scelto dall’eversione di destra per i suoi attentati. Le indagini fecero emergere diverse linee di collegamento tra mafia, camorra napoletana, gli ambienti del terrorismo eversivo neofascista, la Loggia P2 e la Banda della Magliana, il meglio della criminalità italiana degli ultimi quarant’anni.

Quella notte, non potendo ringraziare un dio in cui non credeva, la ragazza ringraziò quel sesto senso che l’aveva spinta a trattenere il suo ragazzo, e rimase sveglia a pensare a chi era partito senza più arrivare.