LA DATA

5 agosto 1938

«È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo arianonordico».
(“La difesa della razza”, anno I, numero 1, 5 agosto 1938, p. 2)

Il 5 agosto 1938 esce il primo numero della rivista “La difesa della razza”, diretta da Telesio Interlandi, che uscirà poi fino al 20 giugno 1943, per un totale di 117 numeri. Nel primo numero viene ripubblicato, tanto per chiarire il concetto, quel Manifesto della razza pubblicato con il titolo Il fascismo e i problemi della razza il 14 luglio 1938, su “Il Giornale d’Italia”, e fortissimamente voluto da Mussolini, tanto da redigerlo di suo pugno, come confidò poi a Galeazzo Ciano.

Per la “scientificità” di questo Manifesto Mussolini si servì di Landra, un assistente di Sergi presso la cattedra di antropologia dell’università di Roma; il Dizionario di storia della Treccani ci informa che i firmatari non erano stati consultati prima della pubblicazione, e provarono anche timidamente a dissentire, peraltro senza esito. Del resto, c’era poco da dissentire: l’autonomia scientifica dei docenti universitari era già stata azzerata con l’obbligo di giurare fedeltà al regime imposto nel 1931 ai professori universitari, un’idea di Giovanni Gentile, anche se la formula del giuramento al fascismo fu poi opera di Balbino Giuliano, ministro della pubblica istruzione. Chi rifiutò il giuramento fu messo a riposo forzato, se prossimo alla pensione, oppure direttamente cacciato.

La difesa della razza italiana, in virtù di un’allenza sempre più stretta con il nazismo, è il primo passo sulla strada delle leggi razziali, che verranno poi emanate a partire dal 5 settembre del 1938. Del resto è della primavera del 1938 la visita di Hitler in Italia, che certo accelerò l’operazione.

Un lavoro di gran fretta, nel breve volgere di qualche mese, ma talmente efficace che  – sistemata la parte teorica e anche quella legislativa – alla ripartenza scolastica e accademica nessun professore ebreo rimase in carica, e altrettanto fu per gli studenti, a parte qualche deroga per chi stava per laurearsi.

Le reazioni da parte del mondo cattolico e degli intellettuali certo ci furono, ma sostanzialmente accorte e di breve durata. Il papa, Pio XI, tenne due discorsi pubblici il 15 e il 28 di Luglio pronunciandosi contro il Manifesto degli scienziati razzisti e lamentandosi che l’Italia, sul razzismo, imitasse «disgraziatamente» la Germania nazista. Nei suoi Diari Il ministro degli esteri Galeazzo Ciano riportò la reazione di Mussolini al dissenso papale: «Sembra che il Papa abbia fatto ieri un nuovo discorso sgradevole sul nazionalismo esagerato e sul razzismo. Il Duce ha convocato per questa sera Padre Tacchi Venturi. Contrariamente a quanto si crede, ha detto, io sono un uomo paziente. Bisogna però che questa pazienza non mi venga fatta perdere, altrimenti agisco facendo il deserto. Se il Papa continua a parlare, io gratto la crosta agli italiani e in men che non si dica li faccio tornare anticlericali». Non ce ne fu bisogno, perché il Papa non fece altre esternazioni pubbliche.

A La difesa della razza collaborò anche il filosofo Julius Evola, cacciato nel 1942 perché fautore di un razzismo “esoterico” e non “biologico”, e alcuni altri che saranno poi politici famosi, come Giovanni Spadolini e Amintore Fanfani, o giornalisti come Indro Montanelli.

Segretario di redazione della rivista fu, dal 20 settembre 1938, Giorgio Almirante, che il 5 maggio 1942 scriveva: «Il razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti, se veramente vogliamo che in Italia ci sia, e sia viva in tutti, la coscienza della razza. Il razzismo nostro deve essere quello del sangue, che scorre nelle mie vene, che io sento rifluire in me, e posso vedere, analizzare e confrontare col sangue degli altri. Il razzismo nostro deve essere quello della carne e dei muscoli; e dello spirito, sì, ma in quanto alberga in questi determinati corpi, i quali vivono in questo determinato Paese; non di uno spirito vagolante tra le ombre incerte d’una tradizione molteplice o di un universalismo fittizio e ingannatore».

«Altrimenti – scriveva ancora Almirante – finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei; degli ebrei che, come hanno potuto in troppi casi cambiar nome e confondersi con noi, così potranno, ancor più facilmente e senza neppure il bisogno di pratiche dispendiose e laboriose, fingere un mutamento di spirito e dirsi più italiani di noi, e simulare di esserlo, e riuscire a passare per tali. Non c’è che un attestato col quale si possa imporre l’altolà al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue».

Almirante dopo la guerra se la cavò piuttosto bene, anche se si tenne prudentemente nascosto dalla liberazione fino al settembre del ’46, pare anche presso un amico ebreo che ricambiava così il favore ricevuto qualche anno prima, quando rischiava la deportazione. La clandestinità tuttavia fu una preoccupazione inutile, non corse il rischio di essere epurato nemmeno per aver aderito alla Repubblica Sociale Italiana, prima  arruolandosi nella Guardia Nazionale Repubblicana, poi come capo di gabinetto del ministero della Cultura Popolare dal 30 aprile 1944, e nemmeno per aver controfirmato il bando Graziani contro i renitenti alla leva della RSI, che prevedeva, per i disertori e i renitenti, la pena di morte «mediante la fucilazione nel petto»: del resto anche a Graziani è andata così bene che gli hanno fatto addirittura un monumento. Anche quando, nel 1947, fu condannato a un anno di confino a Salerno per apologia di fascismo, la questura di Roma provvide a revocare subito il provvedimento. Gli amici erano rimasti un po’ dovunque; ma questa è un’altra storia. O è sempre la stessa? Di certo, a quasi ottant’anni di distanza, si torna a parlare di razza, e pare sia tornato «il tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti».