LA DATA

5 marzo 1943

Nell’officina 19 della Fiat Mirafiori a Torino, alle 10 di mattina del 5 marzo 1943, inizia uno sciopero bianco che si estenderà, in pochi giorni, alla quasi totalità delle fabbriche piemontesi: in pochi giorni centomila lavoratori incrociano le braccia, e subito dopo lo sciopero si estende a tutto il nord Italia, dilagando in Lombardia, in Veneto, in Emilia. Alcuni scioperi sparsi c’erano già stati nel 1942, ma quella del marzo ’43 è la prima grande ribellione operaia, e rappresenta il primo episodio della Resistenza antifascista. Il diritto di sciopero era stato abolito nel 1925 con il Patto di Palazzo Vidoni, all’inizio del fascismo, anche se fino all’approvazione della Carta del Lavoro ci furono gli ultimi scioperi illegali con a capo le forze comuniste clandestine; fu poi espressamente vietato dagli artt. 330-333 e 502 e ss. del nuovo codice penale del 1930, il cosiddetto Codice Rocco.

Il motivo iniziale dello sciopero fu la richiesta di pane e di pace, ma fu così compatto da diventare in breve un preciso gesto politico che ebbe una notevole risonanza anche sul piano internazionale. In effetti si configurava come un atto di ribellione, un atto politico, perché per la legge fascista non solo l’interruzione del lavoro era illegale e dunque vietata e punita, ma in tempo di guerra era considerata un atto eversivo, un tradimento della nazione fascista in armi.

Nel suo articolo dedicato agli scioperi del ’43, Gabriele Polo scrive: «Finito il silenzio: il marzo `43 nasce dall’estraneità operaia al regime, dalla mancata fascistizzazione dei lavoratori dell’industria. Distrutte, con stragi e confino, le avanguardie comuniste e socialiste del biennio rosso, dissolta la Cgil a palazzo Vidoni e conquistato il suo segretario generale, D’Aragona, il regime rende mute le fabbriche, le occupa ma non le fa proprie. E dove la concentrazione operaia è più densa, come a Torino, la distanza dal fascismo rimane: lo segnalano puntualmente i rapporti dell’Ovra e dei federali, lo rimarca l’inaugurazione di Mirafiori del maggio `39 con il silenzio operaio di fronte al discorso di Mussolini (che si infuria), lo rende chiaro la guerra. Nel ventennio la fabbrica è gestita dai padroni e dai sindacati fascisti, non è più il luogo della comunità operaia. Non bastano i dopolavoro a creare una socialità di regime, i lavoratori preferiscono i circoli di barriera e le osterie: lì si ritrovano e lì scorre il fiume sotterraneo della memoria, lì si rafforza la lontananza dal “baraccone di Cerutti” (come veniva chiamata la banda di Mussolini). Non c’è opposizione, c’è diffidenza e distanza. Quando scoppia la guerra, quando a 24 ore “dall’ora solenne che bussa” sul cielo di piazza Venezia cominciano a cadere le prime bombe su Torino e sulle altre città del nord, quella distanza diventa malessere che si gonfia con le tessere annonarie, gli sfollamenti, la borsa nera, la militarizzazione delle officine e l’orario di lavoro che aumenta fino a 12 ore al giorno».

Se agli operai scioperanti nel 1943 toccò in larga misura il tribunale politico, il carcere o il confino, a chi scioperò nel marzo 1944 andò ancora peggio, perché venne arrestato dai repubblichini e poi deportato dai nazisti nei campi di sterminio. Per una cronologia più precisa degli scioperi 1943 -1945, la Fondazione Di Vittorio ha una banca dati accessibile on line.