LINA SENSERINI
Il jazz e il blues senza di lei non sarebbero quelli che conosciamo, ma soprattutto sarebbe mancata un’anima alle battaglie contro la discriminazione dei neri, in America. Quella di Eleanora Fagan, al secolo Billie Holiday, una delle più grandi interpreti vocali di tutti i tempi, nata a Philadelphia il 7 aprile 1915.
Una vita breve, morì a soli 44 anni, e intensa, costellata di gloria e trionfi, quanto di dolore e sofferenza, droghe e alcolismo. Aveva un talento immenso, che ogni cantante jazz e blues venuta dopo di lei non ha potuto che prendere a modello. Aveva una voce unica, una vitalità e una forza travolgente che la fecero resistere allo stupro subìto quando aveva 10 anni, alla fame, alla violenza, alla prostituzione. Una vita di espedienti fino a quando, nel 1933, venne notata da un produttore discografico mentre cantava in un locale notturno. L’uomo era l’influente John Hammond che la scritturò, organizzandole alcune sedute in sala di incisione con il cognato, il celebre Benny Goodman.
Eleanor cambiò il suo nome in Billie, in omaggio all’attrice Billie Dove, e scelse il cognome del padre, il musicista Clarence Holiday che l’aveva avuta quando era appena quindicenne. Sensuale e seducente, quanto fragile e sofferente, la giovanissima Billie, incise con Goodman i suoi primi due dischi: Your Mother’s Son-in-law e Riffin’ the Scotch che tuttavia non ebbero il successo sperato.
Ma Hammond sapeva di avere tra le mani una fuoriclasse e la fece cantare, per l’etichetta Brunswick, con uno dei pianisti che in quel periodo andava per la maggiore, Teddy Wilson. Questa volta la voce di Billie si impose sui testi e sulla musica e fu un successo.
Negli anni seguenti lavorò con grandi interpreti jazz e blues, tra cui Count Blasie, Artie Shaw e Lester Young, suo grandissimo amico fino alla morte che l’aveva affettuosamente soprannominata Lady Day.
Fu tra le prime cantanti di colore ad esibirsi insieme a musicisti bianchi.
Ma, come sarebbe capitato anni dopo alla tennista nera Althea Gibson, che doveva entrare nei campi da tennis dall’ingresso di servizio, così l’Angel of Harlem, come l’hanno cantata gli U2 nel 1988, doveva usare l’ingresso riservato ai neri e rimanere chiusa finché non saliva sul palco. Poco importava che mandasse il pubblico in visibilio con la sua voce e la sua presenza scenica, con la gardenia bianca tra i capelli che era diventato il suo segno distintivo. Era nera e come tale non doveva far parte del mondo patinato delle star bianche.
Così, nel 1939, sfidando le discriminazioni razziali, incise Strange Fruit, una canzone amara e coraggiosa, dove il frutto era il corpo di un ragazzo di colore ucciso dai bianchi e appeso a un albero. Fu un successo, un capolavoro di interpretazione e un inno contro il razzismo di cui lei stessa era vittima. Il brano, per la reazione di alcuni ambienti conservatori, venne vietato in diversi Paesi e Billie poteva cantarlo solo se era autorizzata dalla direzione del locale.
Il suo successo, tuttavia, proseguiva inarrestabile, come lo era la sua vita sregolata e la caduta nella dipendenza da eroina, nella quale cercava una via di fuga per annebbiare il dolore spirituale e mentale. Tony Scott, musicista e per anni suo collaboratore, disse che «Billie è stata e sempre sarà un simbolo della solitudine: una vittima dell’american way of life come donna, come nera e come cantante jazz. Per la società bianca tutto questo voleva dire essere l’ultima ruota del carro».
Billie se ne andò il 17 luglio 1959, stroncata dalle complicazioni legate alla cirrosi epatica, con la polizia intorno al suo letto, senza neanche un centesimo, lei che aveva guadagnato una fortuna dilapidata dai truffatori e da chi si era approfittato della sua generosità. Perché a dispetto di quanto cantano gli U2, «Lady Day, got diamonds eyes», ma she doesn’t «see the truth behind the lies».