LA PAROLA

Amarcord

Le estati più belle della mia vita le ho trascorse a Sorrento. Ogni anno, nella splendida cittadina costiera, cantata da musicisti e poeti, si svolgevano gli Incontri Internazionali del Cinema e fu proprio durante una di quelle soirée che mi portarono, da bambina, a vedere Amarcord, il film di Federico Fellini che ha regalato al mondo questa parola. Tra gli innumerevoli doni di sentimenti e fantasia elargiti dalle sue opere, spicca questo gioiello linguistico, del quale il Dizionario online di Repubblica ci dice che è una «rievocazione del passato nostalgica e venata d’ironia». Già quando la pronuncio, si rompe l’argine della dimenticanza e sorrido e, di nascosto, un poco piango. Ed anche se questa non è una parola della mia lingua madre, il Napoletano, la sento ugualmente mia poiché, come il protagonista di Midnight in Paris di Woody Allen, subisco la fascinazione di una fantomatica età dell’oro, che non è per me la Parigi degli anni ‘20, bensì la Sorrento degli anni ’70, lo scrigno dell’infanzia, vera epoca favolosa da cui attingere l’incanto che la vita di ogni giorno mi nega, il mio punto di vista sul passaggio del Rex, a coronamento di un’attesa più bella di tutti i desideri realizzati messi insieme.

La parola viene dal romagnolo a m’arcord che vuol dire “io mi ricordo“. Per chi ha fatto del passato la sua religione, per chi considera come età dell’oro tutto il bagaglio a mano della rievocazione, tutto il bene e il male che la memoria ci consegna, amarcord non è una parola è “la” parola.

Amarcord, nasce dal processo di univerbazione di una frase romagnola, diventata poi un neologismo della lingua italiana, con il successo del film del 1973. Le tre parole, già costituenti un sintagma, ne divengono soltanto una. Nell’omonima poesia di Tonino Guerra è il potente filtro della memoria che sceglie che cosa ricordare, che cosa illuminare, proprio come nel capolavoro felliniano:

Amarcord

Lo so, lo so, lo so
che un uomo, a 50 anni,
ha sempre le mani pulite
e io me le lavo due o tre volte al giorno
ma è quando mi vedo le mani sporche
che io mi ricordo di quando
ero ragazzo.

La memoria è selettiva e tenacemente affettiva.

Tonino Guerra e Federico Fellini entrambi coautori del soggetto e della sceneggiatura di Amarcord ci mostrano, con una sorta di realismo magico, di quello, per restare nel campo dell’arte visiva, che si può trovare nei quadri di Felice Casorati, il vero Eldorado dei sacerdoti della memoria, una grande madeleine proustiana ricostruita negli studi di Cinecittà: il Borgo, un paese immaginario fatto di larghi strati d’infanzia, conditi da rievocazioni di Santarcangelo di Romagna, dove c’è tutto Tonino e di Rimini, dove c’è il sorriso sornione di Federico. I fasci di luce e la voce del regista che risuona con un perentorio: «Azione!» si posano sulla neve, sulle “manine”, sulle fiamme di un falò beneagurante, su volti e fatti dell’olimpo mitologico di due memorie, appartenenti a due uomini distinti, capaci di realizzare una fusione oceanica con la memoria collettiva, dove tutto è trasfigurato, eppure così sorprendentemente vivido e fedele alla magia dell’amarcord.

Tonino Guerra e Federico Fellini

«Con Amarcord mi pare che Federico e io siamo riusciti a regalare l’infanzia al mondo». (Tonino Guerra)

«Dopo Roma, Federico voleva fare un film sulla Romagna, tant’è vero che aveva scritto un pezzo su Rimini, “La mia città”, un pezzo di ricordi. Siccome anch’io ho scritto certamente molto sulla Romagna, specialmente le poesie che messe assieme fanno un libro, allora incrociando le cose, è venuto fuori questo Amarcord, che lì è scritto in una parola soltanto, mentre sarebbero tre parole. In romagnolo io si dice “a”. Io mi ricordo». (Tonino Guerra)

«Il titolo Amarcord andrebbe meglio allargato in Asarcurdem (non: “Mi ricordo”, ma: “Ci ricordiamo”). A legare l’autore al lettore in quanto futuro spettatore, tuttavia, non è solo il pronome grammaticale: è la volontà stessa dell’autore che si autodestituisce dal proprio incarico di informatore onnisciente e chiama il lettore-spettatore alla gestione del racconto. Non si tratta però di un esperimento democratico di gestione collettiva dal basso: no. La letteratura è sempre aristocratica. Si tratta semplicemente di una violenza esercitata dall’autore sul lettore. Guerra e Fellini, cioè, disarmano il loro lettore imponendogli, come comune, una universale visione dell’esistenza e una unica possibile versione delle cose». (Pier Paolo Pasolini)

«Quando uno parla delle cose che conosce, delle cose della vita, senza pretendere di ammonire nessuno e senza sbandierare pesantemente filosofie senza voler mandar messaggi, quando uno ne parla con umiltà e soprattutto con un senso proporzionato delle cose, sta facendo un discorso che tutti possono capire e tutti possono sentire proprio».(Federico Fellini)