LA PAROLA

Amnesia

Brutta cosa quella indicata da questa parola, dove un’“alfa privativa” – la lettera messa all’inizio di una parola composta, secondo l’ammirevole uso che ne facevano gli antichi greci – sottrae alla memoria la sua essenza, la capacità cioè di ricordare, tener desto, quanto, essendo esistito, o anche solo pensato, appartiene già al passato e non può perciò più tornare esattamente com’era, ma almeno lascia traccia, imprime un’orma, fissa un’impronta, consente una scia.

La perentoria e implacabile definizione che ne dà l’Enciclopedia Treccani è «Perdita o diminuzione notevole della memoria» e la concisa voce a questo termine dedicata si addentra subito in specificazioni che appartengono tutte al vocabolario della medicina, nel quale vengono raccolte tanto le patologie che si reputa possano o debbano essere curate, quanto i rimedi che dai tempi di Esculapio si sono escogitati per soffrir meno o risolvere una faccenda che altrimenti ci menoma se non addirittura ci conduce ad una più rapida fine.

La si distingue in “generale” o in “lacunare” a seconda che il deficit abbia un carattere più o meno globale, oppure che colpisca isolatamente gruppi di ricordi, caratteristica quest’ultima «della demenza arteriosclerotica».

Si definisce inoltre “retrograda” l’amnesia che «inibisce la rievocazione di ricordi precedenti l’avvenimento morboso che l’ha causata (trauma, accesso epilettico)». Di contro l’amnesia “anterograda”o “di fissazione” «è l’incapacità a fissare nuovi ricordi successivi al fatto morboso».

Dà infine conto la voce della Treccani dell’“amnesia nominum”, vale a dire dell’incapacità «a indicare con il loro nome le varie cose: è sintomo iniziale di afasia sensoriale».

Non esiste peggior cura di se stessi di quella fatta consultando da soli, senza adeguata precedente formazione specifica, testi di medicina, soprattutto se sparsi in rete senza calepini attendibili che indichino posologie, princìpi attivi, effetti indesiderati. È questa la strada che porta all’ipocondria, al percepire senza tregua doloretti qua ed altri là, ipotizzandone evoluzioni per lo più catastrofiche.

Ci si astenga perciò, giunti a questo punto della lettura, dal trarre affrettate conclusioni sull’inevitabile esaurimento delle proprie cellule cerebrali, soprattutto dopo una certa età, e si tenga a mente, senza amnesie, la lezione del Molière, il cui Malade  Imaginaire stava, nel francese dell’epoca, ad indicare il “pazzo”, ma anche, come si evince dalle riflessioni di Argante, una figura capace di guardare lucidamente alla realtà, per di più con quel tanto di critica del presente, o del contemporaneo, che purtroppo oggi ha preso solo la strada della lamentela e dell’indignazione sui social, dimenticando che all’orrore ci si può, ed anzi ci si dovrebbe, con le proprie forze opporre.

E tuttavia sia concesso provar compassione per tutti quei neuroni che se ne vanno in fumo, per quanti hanno malattie che conducono a quell’oblio. Ma non ricordo più cosa avrei voluto aggiungere.