LA PAROLA

Scarabòcio (tatuaggio)

Forse la prima fu l’Adele Casso, l’anziana mendicante che, per decenni, ha occupato il portico di Palazzo Ducale a Venezia.  Tra un’ombra di vino e l’altra, con autorevolezza,  si lasciava serenamente andare ad un turpiloquio benevolo sui costumi cittadini: «Cossa fa sta gente tuta scarabociada in giro? ‘Na volta, solo i marineri e quee de là da l’acqua»  bofonchiava l’Adele, indicando la Giudecca. «De là da l’acqua», oltre il Bacino di San Marco, significava il carcere femminile. Così, di voce in voce, scarabòcio non fu più solo un gioco di carte simile allo scopone, di quelli giocati in coppia, all’osteria, ancora diffusissimo in Veneto, specie nei piccoli centri (vi si tengono veri e propri tornei, durante le sagre e le feste rionali). Non fu neanche il nome di un cavallo, persino un po’ brocco, famoso più per le sue sconfitte che per brillanti risultati al box office. Scarabòcio, originariamente in veneziano lo scarabocchio infantile (da non confondersi però con sgarabìsso, per intendersi la firma, vergata in fretta su un documento, così pasticciata da non comprendersi affatto), da un po’ di anni  – in Laguna – ha assunto l’attuale significato di “tatuaggio”. «Ti  te gà scarabocià?» (ti sei tatuato?) è entrato a far parte del gergo locale. «Sì, na roba che no go capìo gnanca mi cossa xe … ma xe un bel scarabòcio, no ti trovi?» (Sì, non so neanche cosa rappresenti … ma è un bel tatuaggio, non trovi?).

La tradizione del tatuarsi, in un posto di mare come Venezia –  transito di gente, merci e costumi – è controverso, ma antico. Si tatuavano i naviganti (i marineri di Adele Casso), i rematori di galee (da qui l’epiteto non troppo lusinghiero di remo da galera); qualche volta, in luoghi nascosti del corpo, si tatuavano le Carampane (TESSERE ne ha già raccontato), quando diventavano esclusive di qualche casata. Gli ebrei e i musulmani presenti in città avevano l’obbligo religioso di non tatuarsi, eccezion fatta per i disegni temporanei che gli islamici vergavano con l’henna sul corpo delle donne. Bizzarra l’usanza, perché – se i tatuaggi erano piuttosto comuni nel mondo antico – furono messi al bando dal cristianesimo, eccezion fatta per i pellegrini da Loreto e Gerusalemme. Infatti i fedeli, a ricordo del loro viaggio, si facevano incidere sugli avambracci alcune immagini sacre (cuori trafitti, Madonne, crocifissi) dette marchi. Anche se non si sa se la consuetudine sia partita da Loreto o da Gerusalemme, tutte le vie passano poi  per Venezia. Così, nei secoli d’oro della Repubblica, si raccontava di un fantasma tatuato con i marchi che appariva nelle calli in prossimità delle Fondamenta Nove a spaventare i debitori. Da segno di devozione, il marcarsi diventò via via un simbolo infamante, una forma di stigmatizzazione sociale.

Tuttavia, gli scarabòci odierni sono tutt’altro. Nell’ottobre scorso, la città ha ospitato 150 tra i migliori tatuatori del mondo, nella quarta edizione dell’International Tattoo Convention: moda, desiderio di autoaffermazione o vera e propria forma artistica? Questa è materia da sociologi, studiosi del costume, psicoterapeuti. Tuttavia, forse solo a Venezia, con quell’ironia pungente che la vecchia Adele buonanima metteva così bene a fuoco, la capacità di sdrammatizzare si palesa con altrettanta leggerezza: «Xe un bel scarabòcio, no ti trovi?». «Basta che se possa scancèar, se ti te stufi» (Basta che si possa cancellare, se non ti diverte più). Anche gli scarabòci sulla pelle, qui, vanno a finire in nebbia.

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