Poteva nascere solo in terra padana, dove è ancora radicata una civiltà contadina di tipo matriarcale, la figura dell’arzdòura (o sdòura), che definisce in bolognese la moglie del capofamiglia, colei che in realtà comanda in casa.
L’arzdòura è infatti la traduzione dialettale della parola “reggitora”, cioè reggitrice, che era molto più dell’ancella del focolare domestico, perché rappresentava il perno della vita quotidiana, una sorta di amministratore delegato dell’impresa di famiglia. I suoi compiti erano molteplici: accudire alla casa, ai bambini, agli animali, coltivare la canapa e filarla, vendemmiare, cucinare, amministrare il budget familiare.
Questo modello si è tramandato nel tempo e l’arzdòura a Bologna e dintorni esiste ancora. Può essere anziana, ma di solito ha un’età indefinita oltre i cinquanta. Di solito non ha la patente, si muove in bicicletta o a piedi. La sua postura tradizionale è con le mani ben piantate sui fianchi.
La si può riconoscere al supermercato in colei che si aggira con cipiglio sicuro tra le corsie confrontando i prezzi, seguita dal marito silente con il carrello che ha il solo compito di caricare i sacchetti in macchina. In casa fa tutto lei, è instancabile, ha una tempra di ferro. Cucina bene e con disinvoltura anche piatti impegnativissimi. Dopo aver sgobbato tutto il giorno è capace di mettersi davanti al tagliere e preparare dodici uova di tortellini. La sua casa è ordinatissima e pulita. L’arzdòura fa anche quei lavori che nessuna si sognerebbe di fare, tipo lucidare il campanello d’ingresso o pulire il pezzetto di portico davanti a casa.
Se non ci fossero le arzdòure la cucina emiliana sarebbe molto diversa: sono infaticabili sfogline, cuoche fedeli alla tradizione, in casa loro si preparano solo ricette doc. È consigliabile non contraddirle e non pretendere varianti o, diononvoglia, piatti da “nouvelle cuisine”. Le loro porzioni sono da camionista, ma non ci si può astenere dal finire tutto: sarebbe un’offesa imperdonabile.
Il suo omologo maschile è l’ùmarel, l’omarello. Ma questo è un simbolo di bolognesità di cui parleremo un’altra volta.