LA PAROLA

Invidia

A un conoscente che ho incontrato frettolosamente nella settimana precedente la Pasqua e che mi ha chiesto come l’avrei trascorsa, invece di utilizzare un evasivo «a pranzo qui oppure di là» ho risposto che avevo intenzione di scrivere un articolo sull’invidia. Dalla sua reazione e considerando che chiunque avessi incontrato in quei giorni mi avrebbe fatto la stessa domanda, mi sono subito reso conto che ne sarebbe potuto scaturire un piccolo ma utile sondaggio il cui risultato è in estrema sintesi il seguente: un imbarazzato e vuoto iniziale silenzio che ho dovuto spesso sciogliere confermando che in effetti non fosse un tema facile da affrontare. In alcuni casi il mio interlocutore ha affermato immediatamente di non essere invidioso con la variante di essere semmai stato oggetto di invidia. Nessuno mi ha chiesto come mai avessi scelto proprio questo tema. Chissà, forse ne sarebbe potuto derivare un imbarazzato e vuoto iniziale silenzio.

Forse è per questo motivo – il silenzio – che la prima richiesta che ho fatto a Google è stata indirizzata alle immagini dell’invidia più che alle parole: donne che guardano di sbieco, la strega di Biancaneve e pochi uomini, ma di sapere – Bertrand Russel e Woody Allen – o invidiabili, nella persona del ricco sciupafemmine Rod Stewart. Che se ne faccia ancora una questione di genere è evidente. Come è evidente per quali motivi un uomo sia considerato, almeno nell’immaginario di Google, invidiabile.

Tra tutte le immagini che il motore di ricerca scarica sullo schermo ne sceglierei tre. L’Allegoria del trionfo di Venere di Agnolo Bronzino in cui compare la figura di un uomo in preda ad una dilaniante disperazione, ma divorato – secondo le didascalie – più dalla gelosia che dall’invidia, lo splendido affresco di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova e una fotografia.

Giotto ritrae l’Invidia contrapponendola alla virtù della Carità e dipingendo una figura femminile a dir poco inquietante: una serpe le esce dalla bocca accecandola col suo veleno mentre brucia tra le fiamme di questo sentimento che non dà pace come un supplizio infernale. Ha due grandi corna demoniache ed enormi orecchie tese ad ascoltare ogni maldicenza invece di se stessa. Tiene stretto con una mano un sacco di monete mentre con l’altra, quasi trasformata in artiglio, ghermisce il vuoto della sua solitudine.

La fotografia è molto nota. Ritrae Sofia Loren che guarda di sbieco le prorompenti grazie di Jane Mansfield mentre si siede al suo stesso tavolo ad una cena di gala organizzata dalla Paramount proprio in onore della diva italiana. Il bianco e nero esalta il contrasto tra invidiosa e invidiata. La stessa loro postura sembra studiata a tavolino da un abile regista. Non ci sono dubbi su chi sia chi. La star di Hollywood appare in una veste dorata e leggera diffondendo un ignaro sorriso platinato mentre la scura Sofia vestita di nero non riesce a trattenere una smorfia ed uno sguardo non certo benevoli.

In una breve intervista – rilasciata quasi sessant’anni dopo e incentrata proprio su quello scatto – la Loren racconta che la sua espressione fosse dettata dalla paura che il vestitino della Mansfield potesse cedere da un momento all’altro e che le sue tette – ma dice nipples, letteralmente, capezzoli – si riversassero sulla tavola inondandole il piatto; afferma di non aver mai voluto avere niente a che fare con quella fotografia, e di non volerne parlare per rispetto della collega ormai defunta!

Se la risposta della Loren non era sincera vi si possono leggere ben delineate tutte le caratteristiche utili alla sua definizione: l’invidia è quel sentimento inconfessabile – era paura – che porta a sminuire i meriti altrui – erano “nipples” – e che se non ci fa agire perché avvengano, ci fa godere delle loro disgrazie – poverina, è morta….

Come scriveva Nicola Gardini sul “Corriere” nell’agosto scorso: «L’invidia, da Ovidio a Facebook, si fonda su una contrapposizione: lui sì, io no. Non è desiderio di innalzarsi al livello dell’altro: è voglia, rabbiosa, di abbassarlo».

Sul vocabolario Treccani leggiamo che è quel sentire «spiacevole che si prova per un bene o una qualità altrui» desiderate per sé e che frequentemente si accompagna ad acrimonia, «avversione e rancore per colui che invece possiede tale bene o qualità»; più in generale, «la disposizione a provare tale sentimento, dovuta per lo più a un senso di orgoglio» che rende intollerabile «che altri abbia doti pari o superiori, o riesca meglio» o sia più fortunato, almeno agli occhi dell’invidioso.

Nella dottrina cattolica l’invidia è uno dei sette vizi capitali – cioè più gravi – perché portano alla distruzione dell’anima umana e si contrappongono alle virtù che invece ne promuovono l’elevazione. È definita come tristezza per il bene altrui percepito come male proprio.

Nasce – nella Bibbia – nel cuore sofferente di Lucifero che vede Adamo ed Eva dialogare con Dio e diviene sin da subito protagonista delle vicende umane. Caino uccide Abele per invidia, non riuscendo a trovare una ragione alla maggior fortuna del fratello che – ai suoi occhi – gode del favore di Dio. Entrambi hanno infatti lavorato con lo stesso impegno e duramente per poter fare le loro offerte. Caino è sdegnato e arrabiato perché non comprende, ma «il suo sdegno non gli colma l’animo del sacrosanto entusiasmo di chi ha ragione; al contrario: lo abbatte, lo deprime. La sua rivolta non ha il coraggio di manifestarsi: resta nel petto, celata come una vergogna. Ma sul volto, nei gesti, nella postura, i segni dell’amarezza affiorano irresistibilmente. È livido, non ha gioia». È invidioso.

Secondo l’autore dell’articolo da cui è tratto il virgolettato precedente e consultabile qui il limite di Caino, il suo “peccato”, è confrontare ciò che non è confrontabile: le esistenze diverse di uomini diversi.

Dante colloca gli invidiosi nel Purgatorio con gli occhi cuciti col fil di ferro non tanto per aver guardato in modo malevolo quanto per non aver saputo guardare che le cose altrui perdendo di vista l’altro e quindi se stessi. Confessa che quando sarà il suo momento dovrà anche lui sostare – seppur per breve tempo – nella loro cornice. Il suo vizio principale è la superbia. Forse anche il sommo poeta potrebbe aver avuto qualche remora a confessarsi pienamente.

La parola deriva dal latino invidere cioè guardare in modo cattivo «e quindi invidiare vuol dunque dire “guardare male”, in un senso molto forte, che equivale a gettare il “malocchio”». Perché l’invidioso soprattutto ha occhi.

Occhi che vedono solo ciò che è intorno, ma che non sono in grado di guardare il prossimo né dentro sé stessi per non vedere il dolore da cui l’invidia deriva: il confermarsi disperato della percezione della propria inferiorità nel confronto con l’altro, collegato all’impossibilità di attribuirsi il giusto valore – partendo da una considerazione eccessiva – e quindi di accettarsi per come si è. Difficile immaginare l’invidia in presenza di una solida e reale autostima. D’invidia si crepa, non si vive.

Per Bertrand Russel è la più deprecabile delle caratteristiche della natura umana perché nessuno ne può trarre giovamento: «Invece di trovare piacere in ciò che ha» l’invidioso «soffre per quello che gli altri hanno. […] L’unico rimedio contro l’invidia per gli uomini e le donne comuni è la felicità, e il difficile sta nel fatto che l’invidia è in sé stessa un terribile ostacolo alla felicità. […] Ci si può liberare dell’invidia gustando le gioie che si trovano sul proprio cammino, svolgendo il lavoro che si deve svolgere, ed evitando di fare confronti con coloro che reputiamo, forse erroneamente, molto più fortunati di noi».

Non si può quindi dire che l’invidia sia un sentimento “oggettivo” perché spesso prescinde dalle reali qualità altrui e dipende esclusivamente da chi la prova.

Anche il pensare di essere comunque fortunati, che tutto sommato non ci si possa lamentare, non salverebbe dall’invidia. Perché dimostrerebbe che la nostra mente sia ancora impegnata in un confronto, che esista quindi una competizione. E la competitività va a braccetto con l’invidia. La prima cercando di stare sempre avanti, magari anche soltanto di un’unghia, mentre la seconda tenta uno sgambetto cercando di farlo sembrare un incidente. L’invidia non fa il tifo per nessuno, a meno che la vittoria non nuoccia.

Sembra quindi potersi dire che l’invidioso doc abbia un rapporto ossessivo con la sconfitta e soprattutto con la propria. E infatti – a ben guardare – non desidera ciò che l’altro ha, perché se anche gli fosse dato continuerebbe ad invidiare. Si invidiano soltanto persone cui sono attribuite qualità superiori, ma senza che ciò determini ammirazione e quindi potenzialmente spirito di emulazione, ma soltanto frustrazione e rabbia.

Secondo un articolo apparso su “Focus l’invidia”, oltre che un sentimento duraturo può essere un’emozione che produce una stretta di stizza, ad esempio per un successo di qualcuno, ed esaurirsi in tale circostanza momentanea.

L’invidia può quindi in questo senso manifestarsi con diversi livelli di intensità e può crescere fino a divenire patologica. Può condurre sia ad aggressività che a depressione, per via dello stato di rabbia che si determina.

In psicoanalisi, secondo Melanie Kleine, cui si deve la prima trattazione sistematica dell’indivia, sarebbero gli impulsi distruttivi che possono manifestarsi nei primi mesi di vita ad accompagnare l’emergere di questo sentimento il cui oggetto sarebbe il seno materno quando nega il nutrimento e lo trattiene.

Sul piano filosofico questa visione coinciderebbe con quella di Nietzsche per il quale «l’invida nasce quando uno è desideroso, ma non ha prospettive».

Sempre in psicoanalisi è celeberrima la teoria dell’invidia del pene di Sigmund Freud, avversata dal movimento femminista e non solo. Tra i detrattori figura anche Woody Allen il quale in una sua famosa battuta afferma che la sua rottura con Freud sia «avvenuta sulla questione dell’invidia del pene, lui credeva che fosse limitata alle donne».

Sull’Enciclopedia Treccani l’invidia è trattata anche dal punto di vista del sociologo. Per Alberoni sarebbe necessaria la presenza di un pubblico al cospetto del quale si svolgerebbe il confronto tra chi invidia e chi è invidiato. Conterebbe la posizione all’interno del gruppo riguardo a quantità di risorse e capacità di ottenerle. Quantità e capacità rilevanti non in termini assoluti, ma relativi, cioè rispetto agli altri membri. Sempre in questo tipo di dinamiche potrebbe forse anche rientrare quella dell’avversione del gruppo nei confronti del creativo e dell’innovatore, generalmente invidiato dalla comunità che – tornando a Nietzsche – non riesce a sentire la musica che lo fa danzare.

Anche l’invidia, quella vera, avrebbe una funzione sociale positiva: per H. Schoeck, far tendere gli uomini all’uguaglianza ed aver avuto un ruolo determinante nella formazione dei valori e della morale.

Perché si sviluppi è necessaria una condizione di prossimità: non si invidia Usain Bolt, ma il compagno di squadra che ci supera sistematicamente nel finale.

Rimanendo sul piano sociologico, sul già citato articolo apparso su “Focus” si da conto dell’invidia del consumatore. Un meccanismo in base al quale il possesso di un bene indicatore di un determinato status sarebbe agognato per assurgere alla posizione di invidiato. Il consumatore non desidererebbe quindi ciò che gli altri hanno, ma ciò che gli altri desiderano. Al fine di incrementare le vendite e giustificare i suoi costi il marketing utilizza abilmente questa leva poggiandola sul fulcro di pulsioni che appaiono innate.

L’invidia è infida e complessa: si accompagna alla paura, all’aggressività e alla rabbia; è assieme connessa all’orgoglio ed alla frustrazione, è pensata pur restando inconscia, è inammissibile, ma piace in qualche modo essere invidiati. È istintuale, eppure si conferma nel confronto cognitivo; rifiutata dalla morale, ma forse alla base della sua nascita. È un vizio di cui non si gode. È la serpe che invece di cercare il sole striscia nell’ombra. È l’ombra.

Esisterebbe però anche la versione positiva dell’invidia «quella benigna, priva di sentimenti ostili»: «Questa emozione è una chiamata all’azione». Esorterebbe a lavorare duramente per alzarsi al livello di chi è invidiato.

Ma questa si chiama ammirazione: è lineare, accettata, non morde il cuore, lo apre mostrando luminose possibilità.

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