LA PAROLA

Carnacuttaro

L’etimologia del termine propriamente  napoletano carnacuttaro nasce da una fantasiosa logica partenopea secondo la quale aggiungendo il suffisso “aro” ad un sostantivo o addirittura, come in questo caso, ad un sostantivo ed un aggettivo insieme, si può delineare una figura nuova, ci si può addirittura inventare un mestiere, e questo accade in un contesto in cui la povertà veniva esorcizzata con l’inventiva e la rassegnazione si trasformava nell’arte di arrangiarsi.

Un contesto quindi, fertile di idee, stratagemmi, furbate, proficue ai fini della sopravvivenza economica, e capaci di trasformare in folklore, cioè nella poesia del popolo, persino l’orrenda realtà delle disuguaglianze sociali.

È proprio in questa ottica, infatti che nasce  la storia del carnacuttaro, ovvero di un improvvisato cuoco di strada, nella fattispecie di vicoli popolari, che trasformava le frattaglie delle interiora di bovini e di suini in zuppe di carne, bollite in enormi pentoloni e poi irrorati con l’agre freschezza dei limoni del sud ed insaporiti con abbondante sale.

Il carnacuttaro generalmente vendeva il suo prodotto in rustiche botteghe oppure su caratteristici carretti ambulanti e, in entrambi i casi, usava attirare l’attenzione dei passanti con urla di richiamo, fischi o fischietti, insomma, rumori tipici della vitalità soprattutto napoletana, ma anche siciliana, nei luoghi in cui allo stesso modo questo fenomeno aveva ragione di svilupparsi.

Le suddette frattaglie venivano poi messe in caratteristici cuoppetielli, cioè carte oleate di uso alimentare avvolte con abile velocità su loro stesse fino a formare un cono che contenesse quella particolare bontà, la cui più preziosa caratteristica era quella di essere gustosamente alla portata di tutti.

La figura del carnacuttaro era infatti la risposta popolare alla sprezzante usanza secondo la quale, già a partire dal 1600, i nobili che bivaccavano nei palazzi, gettavano dalle finestre che davano sulle piazze le inutili frattaglie delle carni più pregiate, direttamente sulla gente povera, che per la fame accorreva trafelata e si spintonava vicendevolmente per accaparrarsene un po’. Ad accentuare l’intenzione puramente umiliante da parte dei cosiddetti “nobili”, il gesto di gettare quei resti veniva accompagnato da uno slogan francesizzato che recitava: «Et voilà, les entrailles (le frattaglie) magnatavelle! (mangiatevele)». A questo punto, erano in particolare le donne del popolo a cercare di avere la meglio, azzuffandosi tra loro e gridando in maniera sguaiata, tanto che ancora oggi, nei contesti popolari napoletani, si dice zandraglia (da les entrailles appunto) per esprimere un certo disprezzo nei confronti di donne volgarmente agguerrite e sbraitanti.

Quello del carnacuttaro quindi non era solo un mestiere, ma anche una sorta di figura simpatica e rassicurante, perché simbolicamente sapeva trasformare un avanzo precedentemente rifiutato, in un fantasioso pasto da re. O’ per e o’ muss, cioè il piede ed il muso del maiale, che diventavano la cosiddetta “trippa” e che venivano venduti insieme alla zuppa di carne, consumati per strada direttamente con le mani  dai coppetielli unti di sapore, erano infatti in grado di rallegrare gli animi molto più di un patetico giullare di corte.

Per questo motivo, il mestiere del carnacuttaro non è mai tramontato del tutto. Ancora oggi qualche carretto caratteristico si può incontrare nei vicoli di Napoli e in alcuni paesi della Sicilia suscitando, forse anche più di allora, simpatia, curiosità, ma anche voglia di trasgredire al rigore della tavola, alla monotonia della casa, alle buone maniere, alla comodità delle posate, nonché alla rigidità delle noiose e limitanti norme sulla salute alimentare.

E se poi non si è così fortunati da imbattersi in un carnacuttaro tradizionale, ma si ha comunque voglia di ritrovare quei tipici sapori, genuini nella loro semplicità, ma non certo nelle caratteristiche dell’alimento in sé, basta rivolgersi a macellerie più tradizionali, oppure  ricercare quei particolari locali moderni, che ne hanno fatto un originale motivo di attrazione per i palati più rustici e nostalgici e che stanno sempre più diffondendosi  in parallelo rispetto alla moderna concezione di pasti pratici e veloci, consumati senza troppe attese né pretese, ma talvolta anche senza gusto né cultura.

Al di là di questo però, quello del carnacuttaro è considerato oggi un antico mestiere napoletano degno anche di una certa rilevanza storica e sociale. Ma è anche una  importante tradizione culturale, tant’è che il pastore che rappresenta il carnacuttaro è spesso presente nei villaggi dei ben noti presepi artistici napoletani.

Nelle forme dialettali più arcaiche si dà del carnacuttaro ad una persona rozza nei modi, poco curata, praticamente senza stile. Si parla invece ironicamente di trippa per sbeffeggiare il grasso in eccesso che rende l’aspetto poco tonico. Trippa come una cosa non proprio gradita che però fa simpatia, come ad esempio il celeberrimo personaggio di Totò Antonio la Trippa, che nel film Gli onorevoli del 1963 incarnava un monarchico candidato alle elezioni che, una volta scoperti i loschi intenti dei suoi dirigenti, li rivelava agli elettori durante un comizio, nel quale si inquadrava più volte un cartello su cui c’era scritto «viva la trippa». Il gioco di parole è chiaro, così come è chiaro il significato simbolico della trippa che, in via subliminale, rappresentava la genuinità delle cose semplici ed oneste rispetto alla apparente bellezza di quelle sfavillanti ma poco pulite e, in questa visione filosofica della vita, chi vendeva trippa era quindi anche in grado di vendere sogni o anche solo la speranza di essere felici con poco.

Tags