LA PAROLA

Catenaccio

Per i più, per quanto da tempo in disuso, è lo schema tattico di difesa, nel gioco del calcio, in voga dagli anni ’40 agli anni ’70, la cui invenzione è attribuita all’allenatore austriaco Karl Rappan: invocato prima e osannato poi dal leggendario Gianni Brera, commentando la vittoria degli Azzurri sulla Germania, ai Mondiali di Spagna, l’11 luglio del 1982, come il «santo catenaccio». Difesa solida, chiusa, insuperabile e gioco rapido in verticale. Il cosiddetto “calcio all’italiana”, perfezionato dall’allenatore Nereo Rocco.

All’origine, però, catenaccio è il dispregiativo di una catena, parola impiegata anche per il chiavistello o un qualunque altro strumento atto a chiudere, anzi, a serrare porte e portoni.

Proprio per questa capacità di impedire violazioni, la parola è stata impiegata per definire un decreto legge, generalmente su materie tributarie, emanato all’improvviso così da impedire che vengano messe in atto contromisure da parte di cittadini potenzialmente interessati dal decreto stesso, se ne venissero a conoscenza prima dell’emanazione.

Nel gergo degli universitari, l’esame catenaccio è quello che deve essere necessariamente superato per poter proseguire un corso di studi.

Derivato dalla parola tardo latina catenaceum, nel significato di catena, il sostantivo catenaccio si configura, quindi, con il senso di chiusura, serramento, blocco insuperabile.

Ci sono però due eccezioni: si definisce catenaccio, in questo caso con il significato di catorcio, una vecchia automobile o un arnese in dismissione.

Infine, il termine viene usato nel gergo giornalistico per definire la riga posta sotto il titolo, composta in un carattere tipografico più piccolo del titolo ma più grande sia dell’occhiello collocato sopra al titolo, o sia dell’eventuale sommario posto ancora più sotto, prima dell’articolo o in mezzo ad esso. Di solito serve per mettere in evidenza una seconda notizia presente nell’articolo a cui il titolo non rende giustizia, o per contrastare quanto appunto afferma la riga più importante e graficamente evidente.

Proprio questa capacità di “incatenare” due notizie o due concetti diversi, con tutta probabilità, ha dato origine a questo uso della parola nelle redazioni dei giornali.

Tradizionalmente, infatti, la titolazione è composta da quattro parti: il titolo vero e proprio che è graficamente in evidenza, con un carattere in corpo maggiore e ha la funzione di dare la notizia; l’occhiello, posto sopra il titolo e composto con caratteri più piccoli o anche diversi, con la funzione di spiegare la notizia, di circostanziarla, di riferire tutto quanto è indispensabile sapere per comprenderla appieno; il catenaccio, appunto, un secondo titolo sotto quello principale che richiama altri elementi della notizia e consente di saperne di più; il sommario, di solito in corpo molto più piccolo, per dar conto di altri elementi presenti nell’articolo.

Del catenaccio portiamo qui a fianco un esempio tratto da uno dei titoli più riusciti nella storia del giornalismo italiano, divenuto un modo di dire in auge ancora oggi che quel partito, formalmente almeno, non c’è più. Fu scritto all’indomani delle elezioni politiche del 1978 quando i partiti della sinistra ebbero un notevole successo, mentre il centro subì gravi perdite. Il titolo esprimeva un auspicio, o dava un suggerimento. A giudicar dai fatti…