LA PAROLA

Ciapinabö

Si chiama così, in piemontese, il tubero dell’Helianthus tuberosus, pianta appartenente alla superdivisione Spermatophyta, alla divisione Magnoliophyta, alla classe Magnoliopsida, alla sottoclasse Asteridae, all’ordine Asterales, alla famiglia Asteraceae, alla sottofamiglia Asteroideae, alla tribù Heliantheae, alla sottotribù Helianthinae, al genere Helianthus e alla specie H. tuberosus.

Chiamato anche rapa tedesca, carciofo di Gerusalemme o girasole del Canada il ciapinabö è più noto in altre parti d’Italia come topinambour, o anche tartufo di canna, e se se ne dà conto in piemontese è perché è ingrediente fondamentale di uno dei piatti più tipici di quella regione, la bagna càuda, (baɲa ˈkɑʊ̯da) letteralmente “salsa caldo”, intingolo a base di aglio, burro, acciughe ed olio originaria in particolare dell’Astesana, delle Langhe, del Roero, del Monferrato, delle aree meridionali della città metropolitana di Torino e delle province di Cuneo, Alessandria e Asti.

La bagna càuda più che un piatto, è, come la fondue o la bourguignonne, un rito conviviale che prevede la condivisione del cibo in forma collettiva da parte dei commensali, i quali lo attingono tutti insieme da un unico tegame di terracotta, il diàn dove viene lentamente cotta, mantenuto in temperatura mediante uno scaldino di coccio riempito di braci vive, la scionfetta, o ciascuno nel suo fojòt, ciotoli anch’essi in terracotta a cui è sottoposto un fornellino, “bagnando” nella salsa verdure di stagione crude e cotte: cardi gobbi, cipolle, peperoni (anche conservati nella raspa, ovvero in ciò che rimaneva del procedimento di vinificazione del grappolo d’uva), foglie di cavolo, cavolfiore, barbabietole, patate, ravanelli, rape e immancabilmente il ciapinabö.

Piatto tipico del periodo della vendemmia, consumato prevalentemente in autunno e in inverno, la bagna càuda deve la sua fortuna alle “vie del sale” che collegavano attraverso le Alpi Marittime il dominio sabaudo, comprensivo anche di Nizza, alle saline della Provenza e delle foci del Rodano da cui venivano importate sotto sale le anciove – ne narra Nico Orengo ne Il salto dell’acciuga edito nel 1997 da Einaudi – ingrediente fondamentale di altre ricette tipiche piemontesi, soprattutto tra gli antipasti: le anciove al bagnèt verd o al bagnèt ross.

Anche l’uso dell’olio d’oliva, che comunque nella ricetta originaria è ampiamente inferiore rispetto alla quantità di burro impiegata, testimonia dell’antico legame con Nizza e con la Riviera di Ponente della Liguria, aree sottoposte al dominio Sabaudo, e della presenza di oliveti nel Piemonte meridionale, documentata dal toponimo di alcuni comuni nell’alessandrino o in Astesana, benché ci sia chi sostiene che originariamente si ricorresse all’olio di noci.

A lungo rifiutata dalle classi abbienti per l’alta presenza di aglio che la renderebbe un cibo rozzo e inadatto ad una alimentazione raffinata, la bagna càuda nella sua attuale versione è stata descritta in un testo gastronomico solo nel 1875 da Roberto Sacchetti. Viene solitamente accompagnata da vini rossi corposi come Barbera, Nebbiolo, Barbaresco o Dolcetto.

Spesso abbinata alla polenta (fritta o arrostita al forno) o alle uova strapazzate, la bagna càuda è molto popolare anche in Argentina col nome di bañacauda, dove è stata importata dai piemontesi emigrati in Sud America. Molto popolare è divenuta in Giappone a partire dagli anni Novanta.

I ciapinabö sono sporadicamente impiegati anche nella cucina siciliana per la farcitura di focacce.

Molto nutrienti, i tuberi di topinambour possono essere cotti in un modo simile alle patate o consumati crudi con sale e pepe. Originari del Nord Americano, hanno un ‘alto grado di diffusione spontanea in tutta l’Italia (a parte la Sardegna) soprattutto nella fascia alpina.

La pianta, quasi infestante, predilige terreni umidi e vicini a corsi d’acqua. Secondo la medicina popolare il ciapinabö facilita la secrezione biliare verso l’intestino, ha azione diuretica, agevola la funzione digestiva, rafforza l’organismo in generale. L’alto contenuto di inulina la rende molto indicata nella dieta dei diabetici garantendo una riserva di carboidrati (in sostituzione all’amido) indipendentemente dall’insulina. Il tubero inoltre è ricco di sali minerali e in particolare potassio, magnesio, fosforo e ferro come pure di selenio e zinco. Si ritiene possa ridurre il colesterolo e stabilizzare la concentrazione del glucosio nel sangue e dell’acido urico.

Risale al 1616 una delle prime descrizioni della pianta da parte del naturalista e botanico Fabio Colonna (1567 – 1640).

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