LA PAROLA

Contratto

Nell’Era del Governo del Popolo e del Cambiamento non si può fare a meno di analizzare la parola Contratto. Parola magica, si badi bene, parola incantata, seducente, che in questi giorni di Natale ha assunto un aspetto da luminaria, certo anche parola notarile se è vero che nulla in questo povero Paese può essere fatto né ora né mai se non è incluso nel famigerato Contratto.

Secondo lo Zingarelli (vocabolario a rischio di sgombero) è un sostantivo maschile di origine dotta e tardo latina che deriva da contractus, participio passato di contrahere. In pratica è un istituto giuridico che regola un rapporto tra due o più persone. Nella fattispecie lo si usa per rispettare dei patti. Se questi non vengono onorati ecco che coloro che si sentono danneggiati possono ricorrere all’arte salomonica di un giudice e ricevere così il giusto rimborso – di solito in denaro, ma non è obbligatorio – per il torto subito.

In politica i contratti non dovrebbero esistere. Il principio è apodittico. Se esistessero infatti non ci sarebbero più politici in circolazione. Il motivo è evidente: la politica – che attiene alla polis e dunque è una scienza finalizzata o almeno dovrebbe essere finalizzata al governo della cosa pubblica – la politica dicevamo è sentire il tempo che cambia, è annusare la direzione del vento, è adattarsi al rullo dei tamburi che arriva dalla foresta. La realtà in altre parole non può essere irregimentata e/o ingabbiata da un contratto fatto di ostinati commi, articoli e codicilli. Se questa capacità di accomodamento (un tempo arte di arrangiarsi) venisse meno per via di un contratto troppo vincolante, cioè se si afferma la superiorità del diritto civile sulla politica, ecco che il l’homo politicus – essere dotato di grande fiuto per la propria sopravvivenza – per non pagare penali non farebbe più, come da contratto, il proprio mestiere e pur di non tirare fuori un ghello tradirebbe volentieri i cittadini che lo hanno eletto. A meno che…

A meno che entrambi i contraenti non si mettano d’accordo per modificare i termini della loro intesa. Un esempio? Mettete che alcuni tizi che stanno a Bruxelles spieghino ad alcuni tizi che stanno a Roma che delle regole del loro patto non gliene frega niente perché il contratto in questione vale per quelli di Roma e non per quelli di Bruxelles. Ma nel contratto – ahinoi – si parla proprio di come tenere i rapporti con quelli di Bruxelles. Che fare dunque? O si cambia il contratto sicché si possa parlare con Bruxelles alle condizioni di Bruxelles senza pagare multe o non lo si fa. In questo secondo caso però – per la complessa articolazione di una vicenda ridicola che il lettore intuisce benissimo – i rigidissimi vincoli del contratto salverebbero sì i tizi di Roma da eventuali penali tra di loro – dunque il contratto sarebbe salvo – ma obbligherebbero coloro che non c’entrano niente – tipo una sessantina di milioni di passanti che osservavano incuriositi questa bizzarra sceneggiata – a pagare un sacco di soldi pur non essendo responsabili di niente.

È solo un esempio. Uno dei tanti. Ma fa capire perché è sempre sconsigliabile in politica fare contratti.

Tags