* MEMORIE VISIONI

Cronache virali 1

Nei quasi quattro anni di vita della rivista, i lettori di TESSERE hanno senz’altro saputo apprezzare gli articoli di Beppe Ceretti, non solo per la qualità della scrittura, ma anche per la sensibilità dell’autore: nella scelta degli argomenti, nel modo di affrontare questioni delicate, nell’impiego di parole anziché altre. Chi non li avesse letti può facilmente ritrovarli qui.

È facile darsene una spiegazione ripercorrendo la sua lunga carriera passionale e professionale, da “l’Unità” fino a Vidas, l’associazione fondata a Milano da Giovanna Cavazzoni nei cui hospice trova accoglienza chi  combatte contro il dolore o è vicino all’ultimo momento.

Nel periodo più arroventato dell’emergenza Coronavirus Beppe Ceretti ha tenuto un vero e proprio diario, fermando qualcuno dei pensieri, delle suggestioni, dei ricordi scaturiti nella propria mente. Lo riproponiamo, con una scadenza settimanale, in quattro puntate intitolate Cronache virali.

Contemporaneamente vorremmo invitare tutti, raccogliendo l’idea proposta da Anna Chiara Capialbi, di arricchire il nostro “archivio della memoria” raccogliendo le esperienze di vita vissute nell’“era Coronavirus”: ricordi, testimonianze, riflessioni, parole, suoni, immagini suggestive che chiunque può inviare all’indirizzo: segreteria@tessere.org.

Ma ora vi lasciamo alla lettura:

Cronache virali 1

13-31 marzo 2020

 

13 marzo 2020
Il tempo sospeso
Una voce al telefono: “Come state, tutto bene?”. Anche la più scontata delle domande, che da tempo immemorabile ci sentiamo ripetere, assume ora un sapore di buono. Il quesito della quotidiana giaculatoria si spoglia della carica retorica che introduce il dialogo e, da forma, si fa sostanza.

In questo tempo senza tempo il valore dell’altro da sé cresce a dismisura. Ci riscopriamo parte di una comunità di affetti e amicizie che davamo per scontate o talvolta persino smarrite. La tecnologia ci aiuta, creando un salotto informatico che rompe le nostre ansie. Dai dialoghi a distanza non ci attendiamo, come quasi sempre capita, di essere informati, due parole e via di corsa verso le nostre quotidiane faccende, ma di essere ascoltati e di ascoltare.

Mentre scorre il mio 72esimo anno di vita, penso che sono parte della generazione più fortunata. Da quando? Da molti secoli a questa parte, mettiamola così. Noi, i cosiddetti baby boomers, mai abbiamo patito l’angoscia delle guerre, delle penurie, dei bombardamenti, se non attraverso i racconti di chi ci ha preceduto, di poco: genitori, fratelli. Anche senza le tragedie estreme a tutti note, per molta parte di loro la vita quotidiana è stata una miscellanea di privazioni, sofferenze. Abbiamo fatto nostre le loro narrazioni, spesso esibite con l’orgoglio che sgorga dal patimento familiare, dalla dignità conservata a caro prezzo. Mentre nell’arco di poco più di trent’anni si sono scatenati due conflitti mondiali con milioni di morti.

Abbiamo impresso nelle nostre memorie tutte le storie, anche quelle, la stragrande maggioranza, che non sono finite sui libri, ma restano parte preziosa delle agende di casa.  Che ci hanno resi ciò che siamo, nel bene e nel male. E ora che accade? Nulla che si possa paragonare a quanto appena ricordato. Se non per un dato ineludibile: la nostra precarietà che rompe l’illusione d’avere una risposta pronta per ogni cosa che accade.

Da qui scaturisce il nostro smarrimento, anche se siamo convinti che presto la soluzione ci sarà data. Sicuro, avremo la risposta ai nostri mali. Tutto ci fa pensare che… ma viviamo in un tempo sospeso.

 

14 marzo
Eccoci, siamo qui
Nel tardo pomeriggio l’appuntamento con la speranza, fissato dal tam tam della comunicazione, si fa voce corale. Confesso che mi stupisce, da vecchio arnese pre-informatico quale sono: in tanti hanno risposto all’appello per esorcizzare le nostre paure con un canto liberatorio, da finestra a finestra, da poggiolo a poggiolo. In altre stagioni ho detestato le chiamate popolari, dopo averle frequentate con intensità in gioventù, pensando alla retorica che simili gesti possono nascondere. Le inquietudini si esorcizzano solo con l’impegno, individuale e collettivo, così mi sono ripetuto. Eppure quando ho sentito le note di Azzurro, la splendida canzone di Paolo Conte, mi è venuto un groppo in gola e ho guardato con simpatia alle persone affacciate a finestre e terrazzi. Quelle note, non so dire perché, sapevano di vero. Non c’era sguaiatezza, non c’era la volontà di mettere la testa sotto la sabbia, non c’era la retorica del vogliamoci bene, ma il senso di una vita collettiva che è andata temporaneamente smarrita, ma che vogliamo e sapremo recuperare. Un altro modo di dire: “Eccoci, siamo qui, non siamo soli” che ci viene dalle quotidiane telefonate.

A proposito. In tarda serata ricevo la telefonata di un caro amico che non sento da tempo. Mi provoca un piacere immenso. È un riassunto delle puntate precedenti di una vita, intensa la sua, propria di un essere inquieto, sempre alla ricerca di qualcosa che non troverà mai. Tuttavia ciò che importa è che non smetta mai di cercare. Perché è la ragione che sostiene la sua vita, assai movimentata e travagliata negli affetti. Per qualche tempo abbiamo lavorato fianco a fianco, giocando al frater minore frater maior(potrei essere un suo giovanissimo padre). Ci ripromettiamo un prossimo incontro, quando sarà possibile: sarò, saremo capaci di mantenere la parola data?

In serata un’ambulanza si ferma all’ingresso del palazzo di fronte. Laura osserva per alcuni minuti, cercando di vedere chi viene soccorso, mi segnala che i lettighieri sono bardati di tutto punto, mi invita ad affacciarmi alla finestra.
Non mi alzo, fingendo interesse per ciò che sto guardano in tv. Ma non è vero. Nego il mio disagio con un pizzico di vigliaccheria.

 

15 marzo
Buio a San Siro
C’è un silenzio irreale in questo pomeriggio. No, la domenica non c’entra nulla. È un giorno qualunque nel tempo del coronavirus. Il “village”, come chiamano mia figlia e mio genero il nostro quartiere di San Siro, denunciando con benevolenza e non senza qualche segmento di verità la sua anima elitaria e di isolamento, è così da oltre una settimana. La nutritissima colonia di cani ritrova il dominio del territorio. Persino le cornacchie, con il loro fastidioso crack crack, hanno abbandonato per il momento le vie e i giardini: i bidoni della spazzatura, incredibilmente vuoti, non sono più riserva di cibo. Di converso, si avvertono suoni prima negati, armonie, come la chitarra alla quale si esercita e diletta con garbo il nostro vicino del piano di sotto.

Anche il vecchio San Siro non troneggia più come al solito. Non solo per la semplice ragione che anche il calcio è sospeso, ma perché le sue luci, accese nelle notti anche senza partite, sono ora spente. Testimoni di questo tempo fuori dal tempo, le mille macchine che giacciono, molte inutilizzate da giorni e giorni, nei parcheggi. Non riusciamo nemmeno a rallegrarci del relativo minor inquinamento.

Guardo il cielo pensando che da lì vengono dolori e gioie. Solo due settimane fa avevamo il naso all’insù osservando la meravigliosa luminosità di Venere, dopo averla scambiata per un drone.
Buio a San Siro.

 

16 marzo
La spesa online e i falsi bisogni

Un sole sfacciato, che preannuncia la primavera, alimenta il sottofondo di malumore che rischia di farla da padrone. Mai avremmo pensato che un maledetto virus, per di più coronato, potesse condizionare a tal punto le nostre vite, ma così è stato.

I nostri sogni, i miei sogni, si sono fatti terreni. Stanotte vagavo con gli amici sulla grande spiaggia di Follonica, in una mattinata limpida, luminosa come mai. Un vento terso veniva dal mare e ci prendeva di taglio. Di fronte a noi l’Elba, Montecristo. Nessuno accanto a noi. Fin qui facile lettura. Meno agevole capire perché dal largo approdassero imbarcazioni cariche di soldati che ci esortavano ad abbandonare l’arenile, senza mai rispondere ai nostri ripetuti quesiti. Il risvolto buffo era la nostra mancanza d’ansia, come se fosse naturale uno sbarco di tale natura. Il risveglio mi ha negato un incontro chiarificatore.
Corda pazza: non è che il virus agisca nell’inconscio da chiodo schiaccia chiodo? Serve interpretazione di chi la sa lunga e frequenta Herr Freud.

Telefonate amiche ci rendono la giornata e il cuore più leggeri e cancellano le paturnie mattutine.
Contravvenendo al sacro principio del “faccio da me e tanto basta”, stamane io e Laura ci siamo messi di gran lena a organizzare la nostra prima spesa online. Dopo un’interminabile serie d’informazioni e codici, eccoci nell’esercito dei sudditi online del super. Un’ora di spesa con vagabondaggio tra i prodotti delle varie sezioni. Solo tra formaggi e simili contiamo 545 voci. L’orgia dei consumi.  Tutto bene finché non si arriva alla fatidica voce: tempi di consegna. E qui la spesa si fa davvero virtuale. Perché la schermata della settimana e delle ore giornaliere di consegna è una serie di palline rosse che indicano l’esaurito. E la prossima settimana? Idem. Non ci resta che abbandonare l’impresa. Fino a fine mese niente da fare. Una rapida ricognizione rende evidente che il necessario che troviamo in casa copre le nostre esigenze, sicuramente sino agli inizi d’aprile, a parte pane, latte, verdura e frutta, comunque reperibili. Una buona occasione per mettere in atto un processo di consumi più avveduto, anche se i maestri per necessità, ovvero le generazioni dei nostri padri e nonni, non ci sono più.
Comunque proprio nulla in confronto ai patimenti del passato.

A proposito. Leggo che il presidente del Consiglio Superiore di Sanità ipotizza un prolungamento della data di riapertura delle scuole, fissata per ora al 3 aprile. Non so se l’ulteriore rinvio sarà accolto da altrettanto giubilo rispetto a due settimane or sono.
Il coronavirus porta con sé una miriade di effetti perniciosi, tra i quali la sospensione della socialità del gruppo che ha nelle scuole il suo punto di riferimento. Anche oggi, ne sono certo. Quasi per miracolo i nostri studenti del Terzo Millennio si trovano idealmente accanto a taluni poveri d’un tempo che amavano nella scuola ciò che non trovavano a casa loro, “dove povertà e ignoranza rendevano la vita più dura, più tetra, come chiusa in se stessa; la miseria è una fortezza senza un ponte levatoio”. Sono le parole di un grande cantore del Novecento, Albert Camus, contenute nel suo ultimo e splendido libro Il primo uomo. Chissà che il coronavirus ci possa rendere più poveri di falsi bisogni. Ho qualche dubbio, ma alla mia età è lecito.

 

17 marzo
La magia delle parole

Vie deserte sotto il sole del primo anticipo di primavera, anche se le temperature restano invernali, soprattutto al mattino e alla sera. Solo i mezzi di pulizia dell’Azienda milanese rompono il silenzio di questo prolungato Ferragosto fuori stagione. E i rumori, quelli che non senti mai, anche se il sostantivo, troppo generico, non rende: è il cuculo che ripete ossessivo il suo verso e preannuncia la primavera covando chissà dove le uova altrui; è la tapparella che cigola, per quanto alzata con sommo garbo dal vicino; è il dialogo che si svolge nell’appartamento confinante, parole pronunciate in toni sommessi, che non so distinguere e delle quali mi giunge il solo bisbiglio; è l’ascensore che inizia la sua corsa e che sollecita domande assurde: a quale piano, chi sarà mai, dove andrà?, e mentre m’interrogo percepisco non già l’assurdità, ma l’ansia inconscia che spinge un simile quesito ad affiorare alla mente.

Da animale abitudinario dell’immenso gregge che popola una delle tante contrade di questa città, mi chiedo che cosa farò oggi, ennesimo giorno di questa forzata quarantena, mentre passo da una finestra all’altra, dalla strada di un lato, ai grandi giardini delle due scuole dall’altro. In tempi normali sarebbe un felice frastuono, l’ingresso prima delle lezioni, talvolta le auto in doppia fila di chi finge d’avere sempre fretta e in realtà ha l’unica urgenza di pensare solo a se stesso.
Scuole e giardini che si animeranno di lì a poche ore delle grida dei bimbi nell’ora di ricreazione. Mi sorprendo a fissare un paio di attrezzi lasciati in terra, quelli delle lezioni sulla natura a cielo aperto, come se fossimo stati sorpresi da un improvviso cataclisma, anche se quest’ondata è invisibile, ma forse più devastante.

Già, che fare?

Hai un bel dire che c’è sempre tanto da fare, se si vuole, ma è una siffatta condizione di recluso che toglie spontaneità anche ai gesti che più amo, come la lettura, la scrittura, il dialogo con gli amici. Tali gesti hanno quale minimo comun denominatore la libertà e non lo stato di necessità. Tuttavia mi chiedo perché, dopo essermi rifiutato per più giorni, ora metto per iscritto questi pensieri vaganti.
È che basta capire che non c’è niente da capire: ciascuno trova e prova piacere negli atti che gli sono più consoni.

A proposito di piacere e scrittura. In questi giorni ho messo mano (meglio ho messo occhi) su un libro che mi ha incuriosito per il titolo più che per la recensione sullaLetturadel «Corriere»: La grande invenzione ovvero la storia del mondo in nove scritture misteriose. Un giro del mondo, nell’ombelico dei segni, tra scritture decifrate, inventate. Un caleidoscopio per addetti ai lavori, ma di straordinario fascino anche per chi delle parole ha fatto lo strumento di lavoro d’una vita. Sperando di essere un serio artigiano. Ti par poco. Così ho viaggiato in ogni dove, da Cipro a Creta sino all’isola di Pasqua. Se il testo è per iniziati, il linguaggio usato da Silvia Ferrara, autrice e ricercatrice, è comunque fresco e accattivante.

Bene, che cosa si ricava dalla lettura? Che non c’è nulla d’inevitabile nell’invenzione della scrittura, nulla di deterministico: le tante culture primordiali ci sono arrivate in “focolai separati d’invenzione” (accidenti, mi accorgo di aver usato il sostantivo focolai, nomen omen).
È che un giorno l’uomo ha deciso di fermarsi, produrre il suo fabbisogno nutritivo, marcando il territorio con le istituzioni e creando un impero. Per tenere sotto controllo altri uomini ha inventato la scrittura.
Che non ha mutato il nostro Dna, non ha ridisegnato il sistema operativo del nostro cervello, ma ha prodotto ugualmente una rivoluzione costringendo i nostri neuroni a captare altro da ciò cui erano abituati. Segni che si sono adattati al modo con il quale il cervello scannerizza il mondo attorno a noi.

A volte ho l’impressione, osservando il cortile di casa nostra, che lo scanner s’inceppi; altre, ben più grave, che lo scanner non s’è affatto inceppato, ma che sono, siamo proprio così, senza rimedio.

Resta il fatto che la parola, come suggerisce l’autrice, è magia. Letteralmente, lettera per lettera. Leggiamo e scriviamo senza più renderci conto della velocità con cui lo stiamo facendo: una magia imperfetta perché la comprensione non è istantanea. Ma è proprio nel ponderare, nel pensarci su che sta tutta la sua perfezione. E brava prof. ssa Silvia.

 

18 marzo
Gianfilippo e la cecità della ragione
A proposito di libri. Dopo tanti anni ho riletto Cecità, lo straordinario romanzo di Saramago. D’un fiato. Ampiamente citato in questi giorni, accanto alla Pestedi Albert Camus.

Lo so bene, è come farsi del male in queste interminabili ore di forzata clausura. Ma la sola cosa che fa male a questo mondo è l’indifferenza, il cinismo.

Non c’è un mandante, non c’è una responsabilità, non c’è una presunta colpa per la cecità che colpisce d’improvviso, uno dopo l’altro, i membri di un’intera comunità. Avviene, in un mondo organizzato e costruito sul senso della vista. Un’epidemia che conduce alla catastrofe e al caos, un quadro di cupa disperazione. L’autore confessa la sua sofferenza nello scrivere il libro: “È stato come una lunga malattia, a volte, dopo due pagine, dovevo fermarmi per respirare”.

Straordinario racconto cadenzato da una prosa essenziale e da una punteggiatura entro la quale i discorsi diretti s’avviano all’improvviso, senza che le virgolette aperte e poi chiuse diano fiato; semmai solo una virgola e una maiuscola, tanto il ritmo è incalzante.

Un inferno dantesco in un mondo dominato, in sequenze progressive, dalla crudeltà, dalla barbarie di una reclusione che non conosce confini, terribile come le violenze e carneficine perpetrate negli ospedali, nei manicomi, nei supermercati, in ogni dove. Persino nelle chiese dove tutte le statue dei santi vengono bendate, costrette alla cecità.
La cecità della ragione, simboleggiata dalla visione bianco lattiginosa che colpisce, una ferita ancor più feroce del buio, del nero.

Eppure, in tante barbarie ci sono momenti di straordinaria intensità poetica. È una donna, la moglie del medico che per primo ha contratto il terribile virus, a condurre la disperata battaglia. Prima fingendo d’essere cieca e poter così accompagnare il marito in questa terribile via crucis, poi resistendo all’indicibile. È lei che nel tripudio generale per la vista ritrovata, alza il capo verso il cielo e vede tutto bianco. Pensa sia arrivato il suo turno e abbassa gli occhi di colpo. La città è ancora lì.

Quando volgo lo sguardo altrove dai cupi orizzonti di Saramago, osservo con relativo ottimismo lo strano e deserto mondo oltre le finestre di casa.

Ottimismo, deserto? Ci ha pensato Gianfilippo a farmi riflettere.

Chi è Gianfilippo?
Di cognome fa Bancheri ed è il giovane primo cittadino di Delia, in provincia di Caltanissetta. Racconta la sua travagliata giornata alle prese non con i ciechi di Saramago, ma con molti suoi concittadini che fingono di non vedere e non sentire e si fanno beffe delle ordinanze anti virus, pensando forse che “sono affari del Continente”.

L’apologo si può intitolare “Come andrà tutto bene se…?”

  • C’è chi esce a fare la spesa tutti i giorni quando non serve
  • C’è chi va a comprare sigarette un giorno sì e l’altro pure
  • C’è chi va a far benzina ogni giorno o almeno così dice
  • C’è chi ogni giorno va a fare la corsetta stressato: la facevo anch’io, dice, Gianfilippo, ed eravamo forse in 20 nel Paese; ora tutti vogliono correre
  • C’è chi vuol andare a Caltanissetta perché il suo cane mangia solo le crocchette che là vendono
  • C’è chi va a Canicattì a far la spesa quando a Delia ci sono negozi di ogni tipo
  • C’è chi fa il barbecue in giardino e chiama i vicini
  • C’è chi chiama una miriade di persone in casa per disegnare il cartello “Andrà tutto bene”
  • Gianfilippo sostiene che stare in casa è molto meglio che essere in prima linea come medico o paramedico e che la parola sacrificio va usata con parsimonia e senso compiuto
  • Gianfilippo alla fine si pone una domanda: che cantiamo a fare Azzurrodalle finestre se poi manchiamo di rispetto a chi lavora per contrastare l’epidemia?

Grazie signor sindaco e buon lavoro. Per quanto possibile.

 

19 marzo
L’altro nel proprio orizzonte
Il messaggio di Vidas informa tutti noi volontari che la Casa di Giovanna Cavazzoni è disponibile ad accogliere i pazienti non afflitti da coronavirus, ma che soffrono di situazioni complesse e quindi a potenziale rischio contagio. In tal modo contribuendo al drammatico problema di sovraffollamento di tutte le strutture sanitarie della Lombardia.

Mi sono spesso chiesto in questi giorni di pandemia che cosa avrebbe detto, scritto e messo in opera la fondatrice di Vidas. Esercizio vano e se si vuole retorico. Eppure sono certo che le parole chiare e forti del direttore generale Giorgio Trojsi sono il frutto maturo della scelta compiuta 75 anni fa da Giovanna.

In questi giorni dalle zone più colpite, da famiglie angosciate, a noi assai vicine, si leva un grido di dolore legittimo per le tante morti dimenticate, per i rituali funebri cancellati.

Il coronavirus ha scosso alle fondamenta la tendenza tecnocratica della medicina degli ultimi anni, intesa come il luogo dove si va solo per essere guariti.

Giorno dopo giorno le immagini rilanciate ci trasmettono altro, come se questa pandemia avesse, nella sua crudeltà, riportato in essere valori dimenticati.

I medici di ogni ramo, gli infermieri, gli operatori sanitari tutti, sono visti in una diversa luce. C’è di che rallegrarsi, se non fosse per l’inguaribile (questa sì) tendenza a trasformarli in eroi.

I loro volti, stanchi ma determinati, ci dicono o ci fanno sperare che l’emergenza mai conosciuta prima, abbia portato o possa portare con sé una maggiore umanizzazione delle cure, un progressivo e benefico ritorno del rapporto tra medico e paziente, reso spesso ineludibile dal distacco forzato dai familiari.

A dispetto di sovraffollamento e di contingenti drammatiche carenze, si ha la sensazione che accanto ai letti di chi soffre si sieda un personale medico capace di sentirsi meno investito d’autorità, donne e uomini che tengono idealmente la mano ad altri uomini e donne, in uno spontaneo atto di solidarietà.

Si scopre oggi, in proporzioni e numeri mai raggiunti prima che, per quanto concreta sia la tecnologia, tanto rarefatta e impalpabile è l’arte di stare accanto a chi soffre.

L’identità, l’individuo. Ecco i soggetti che un virus letale può riportare alla luce e con essi i valori di solidarietà, persone che interagiscono non in quanto titolari d’interessi e non in nome della sola funzionalità e dell’efficienza.

Confesso di non sapere quanto resterà, nel tempo del dopo, questo sentire comune che ci porta ad affacciarci ai balconi a ore certe per cantare, esorcizzando paure e speranze. E nemmeno so se il Paese saprà far tesoro di questo terribile flagello. Né so se parole quali sacrifici e altruismo resteranno cosa viva o giaceranno sepolte nei vecchi vocabolari cartacei.

Taluni esempi suscitano speranza; altri raccontano di una natura matrigna che non conosce né senno né pietà.

Quel che so è che il vero, autentico progresso civile e umano consiste nel “mettere l’altro nel proprio orizzonte”: come ben sanno i membri della comunità di Vidas, non sono parole mie, ma dettate da una signora che oggi guarderebbe con gioia alla decisione di porsi ancor di più al fianco della comunità.

 

20 marzo
Diossina, chi era costei?

Interminati spazi, sovrumani silenzi, profondissima quiete.
Chiediamo aiuto a Leopardi in questi giorni di reclusione forzata.

Anche la mente, non solo il corpo, necessita di una ginnastica, per impedire l’atrofia o, ciò che è peggio, l’anarchia degli scarsi neuroni di cui siamo in possesso.

In questi giorni sfogliare i quotidiani, anche quelli più seri, è un po’ come leggere i bugiardini dei medicinali e scoprire che molti dei sintomi denunciati sono i nostri.

Come se non bastassero le sacrosante restrizioni imposte, s’insinuano tra le colonne, un tempo piombate, sospetti anche sulle nostre condizioni di sani apparenti: e se fossimo noi gli untori, seppure segregati?

Così basta la notizia di possibili contagi non conteggiati (si perdoni il bisticcio), di febbri celate tra le mura domestiche che non alimentano il quotidiano rendiconto, per spargere il seme del dubbio anche nei confronti di chi ci sta accanto.

Se anche noi facessimo “finta di essere sani”, come quella canzone? Persino l’autore, il grande Gaber, quanto a ottimismo non è che abbondasse, canta:
Vivere, non riesco a vivere
Ma la mente mi autorizza a credere
Che una storia mia, positiva o no
è qualcosa che sta dentro la realtà”

Ci soccorre dunque nell’immediato il senso del limite e la legittima convinzione riassunta nel vecchio detto milanese “Ofelè fa el to mesté”.

Dov’eravamo? Già, a Leopardi, il fuoriclasse, e ai suoi spazi.

Da molti giorni i nostri sono terminatiassai, anche se le quattro stanze diventano una reggia se paragonate a molti mono e bi locali dove da tempo convivono anche più di due persone.

È che il famigerato “Covid 19”, nel suo furore infettivo, non conosce distinzione di classe e non è forse un caso che sia nato in una lontana provincia della Cina, la patria dell’unica forma di capitalismo-comunismo o, se vi pare, capital-comunismo, realizzato.

Lo spazio, dunque. Quando mai era capitato di condividere la nostra vita entro limitate mura per una tanto lunga sequenza di cui per altro non s’intravede la fine?

Della mia ricordo, come tutti, innocenti attacchi influenzali (dio che nostalgia!), qualche feroce colpo della strega e una lunga convalescenza dopo l’asportazione d’un tumore.

Mai tuttavia era accaduto che restassi tanto tempo in casa in buona salute. Senza sapere per quanto tempo ancora e soprattutto senza poter decidere in prima persona.

Ciò cambia la percezione: è lo spazio entro il tempo sospeso.

Così le mie, le nostre, quattro mura assumono le dimensioni dell’unico cosmo possibile.

Si riguardano mille volte le costole dei libri: i titoli di quelli mai letti, ma che stanno in fiduciosa attesa; di quelli letti dai quali spuntano brandelli di carta a far da segnale (li apri e le frasi evidenziate talvolta riportano alla luce ricordi e talaltre no e ti chiedi: perché ho sottolineato?); di quelli in corso di lettura, magari un paio, lasciando alle ore pomeridiane il saggio sulla nascita delle parole e alla sera il romanzo, come fossero medicinali, così che quello notturno popoli il tuo universo di sogni decenti.
Non capita forse a noi tutti, se un romanzo ci cattura, d’immaginare luoghi, visi di persone? Ovvio che sì.

Vengono riesumati raccoglitori dimenticati che conservano tracce del nostro passato. In uno scomparto della libreria del corridoio, giacciono cataste di agende che custodiscono tracce di antiche assemblee di redazione. Mi domando perché le abbia tenute e soprattutto perché non le cestinerò mai.

Una del 1978 mi riporta ai fitti appunti di una passeggiata entro i territori contaminati dalla diossina. Tra le immagini una mia avvolto in uno scafandro. Reggo tra le mani una delle macchine del fotografo Giancarlo De Bellis. Un misto di goffaggine tra palombaro e astronauta “de noantri”.

Ricordo il pellegrinaggio entro una dimensione che allora mi pareva non appartenere più a questo mondo. Anche se oltre la recinzione, a poche diecine di metri, sorprendemmo un uomo addetto ai lavori sulla superstrada sollevare da terra una bottiglietta di birra e tracannare.
Oggi quella zona è un fitto bosco, meglio un parco, che sta tra i paesi di Meda e Seveso. La diossina, chi era costei?

Vicende dell’altro secolo, il coronavirus fa le cose in grande e non c’è verso, per ora, di imbavagliarlo.

Dov’ero? Già allo spazio. Tra poco, finite di scrivere queste righe, la ginnastica, perché le mie vertebre lombari si ribellano.

Con la corsa finale, in un percorso ellittico tra camera, studio, corridoio, sala, cucina e ritorno. C’è del metodo in questa piccola follia. Anche se ho come l’impressione che qualunque cosa diciamo o proviamo in questo momento non sembra più vera e risulta piuttosto fuori luogo.

Mi soccorrono le splendide parole di Alice Munro che così conclude uno dei suoi racconti La dama spagnola, raccolti in Una cosa che volevo dirti da un po’: “…Viviamo oggi come se fossimo tutti caricati a mille tanto tempo fa e ora mulinassimo alla cieca, pronti a bloccarci appena sfiorati e a vederci l’un l’altro, per la prima volta, inoffensivi e immobili. C’è un messaggio in questo; ne sono più che convinta; ma non so proprio come fare a trasmetterlo”.

 

21 marzo
Elogio delle regole

È passato un mese esatto da quando il primo paziente del Lodigiano ci ha fatto scoprire il coronavirus, fin lì affare di una lontana provincia cinese.

Da alcuni giorni quest’incubo è nei miei sogni, sia pure in forma indiretta. È la seconda volta che mi appresto a impaginare in tipografia, forse un quotidiano, forse una rivista, chissà. Il fatto è che nel telaio della pagina, nonostante l’urgenza, le parole scritte con il vecchio piombo non ci sono. Invano mi sollecitano i tipografi, non si può procedere alla stampa perché mancano i testi. Resto immobile, frugando in una vecchia cartella, e non riesco a capire come e perché abbia potuto smarrirli da un piano all’altro. Nessuno mi aiuta, né si avvicina, né io sono in grado, per chissà quale arcano motivo, di risalire in redazione a cercarli.

Mi risveglio inquieto. Nella miriade di ovvie incongruenze, un paio di elementi corrispondono al vero di tanti, tanti anni fa. La tipografia è quella di viale Fulvio Testi; tra coloro che mi sollecitano, riconosco il volto e le fattezze di un simpatico tipografo, di cui ho dimenticato il nome, ma che apostrofava il giovane cronista con un “ci ho di bisogno…”. Un taglio robusto era la richiesta sottesa, accompagnata da un sorrisetto ironico, inquietante.

Dai sogni alla realtà e ancora ai sogni. Una rapida scorsa ai titoli dei giornali non induce all’ottimismo. La maledetta curva dei decessi registra record giorno dopo giorno e non ci resta che attendere. Wuhan da incubo s’è trasformata nella speranza del nostro paradiso futuro, anche se ora la Cina pare di nuovo lontana, tanto lontana.

Il nostro panorama tornano a essere le vie deserte sotto casa. Ma poco più in là, sulla grande arteria che porta a ovest fuori città, ci narrano della coda per entrare nel vicino supermercato. Molto più lunga dei giorni precedenti, raccontano i vicini reduci dall’impresa, vittoriosi e sconfitti. È stata sufficiente l’ipotesi di una possibile chiusura per il fine settimana, va detto mai avanzata dal governo, per ricreare lunghissime code agli accessi.

Bisogni veri e falsi, più falsi che veri, condizionano le nostre esistenze. È questo sottile contagio che non verrà mai meno, anche quando potremo riprendere il nostro cammino abituale.

Come l’allergia alle regole, diffusa in ogni tempo nel nostro Paese, pandemia questa sì senza rimedio.

In uno splendido articolo sul «Corriere», Claudio Magris tesse un’ode alle regole, poesia che può dare sobria dignità al nostro destino: “Le regole – scrive – sono la democrazia e la democrazia è certo meno affascinante dell’amore o del colore del mare; la regola è un valore freddo che tuttavia ci permette di coltivare i nostri valori caldi, l’amore o il colore del mare”.

“Abbiamo diritto – continua – di compromettere altre vite anche in nome del nostro amore e bisogno di loro o del loro desiderio di noi? Pure l’amore, se dissolve limiti e doveri, può diventare un guazzabuglio distruttivo”.

Regole tanto più necessarie e stringenti perché nessuno è dispensato da questo “dramma biblico” come lo definisce David Grossman. La speranza, per dirla con il grande scrittore israeliano, è di uscirne con nuove priorità, “imparando a distinguere meglio tra ciò che è importante e ciò che è futile”.

E sapendo, aggiungo, quanto sia essenziale nella nostra esistenza aggrapparsi sia alle corde delle campane che suonano ore liete, sia a quelle che battono ore gravi. Senza irridere, come fa in questi giorni qualche presuntuoso professore di vita, a chi prorompe in un canto liberatorio dal terrazzo di casa, nei giorni che ci mostrano immagini di mezzi dell’esercito in colonna che trasportano le salme di questa ecatombe.

C’è più vera pietà in quel canto che in molti sguardi assorti che nascondono prosaici pensieri, come in taluni solenni funerali in chiesa. Quando, prima che la funzione cominci, si va alla ricerca del congiunto per veloci condoglianze e via, prima che il rito finisca. Amen.

 

22 marzo
L’attenzione profonda
Dopo giornate di primavera incipiente, s’alza il vento e il termometro scende. Una coda d’inverno? Speriamo sia solo una parentesi. Nel frattempo una miriade di gemme sta spuntando nel ritrovato verde dei giardini, nei cespugli, persino sugli alberelli piantati nelle aiuole tra le due corsie della via di casa. Quando qualche anno fa le hanno piantate, mi pareva una sfida assurda alla nostra quotidiana aggressione. Mi sbagliavo; sono ancora esili, incerte, alcune crescono piegate, non credo dal vento, ma dalla loro stessa fragilità. Comunque hanno vinto la sfida.
Di ritorno dall’edicola, davvero poche decine di metri, cammino in mezzo alla strada deserta, permettendomi ciò che in giorni normali non m’è concesso. Poco lontano, anche il doppio filare di platani, robustamente mutilato pochi mesi fa, ha già perso le fattezze scheletriche dei primi tempi e dà vigorosi segni di vita.

Mi chiedo, con autocritica, perché solo oggi presti particolare attenzione a quanto mi circonda, compreso il “vivente non umano” di cui ho appena scritto.

La risposta è in apparenza banale, sta certo nell’eccezionalità del momento. Ma a ben vedere non basta. È che l’attenzione pare sbiadita nei nostri sensi.

L’attenzione, straordinaria capacità della mente, è uno dei pilastri della vita di ciascuno, ma per esistere e sviluppare la sua fertile creatività ha bisogno di esercizio, di radicamento, di una direzione verso cui andare.

L’irruzione delle tecnologie di comunicazione sempre più veloci, gli attuali ritmi di vita hanno in buona parte frantumato la nostra capacità di attenzione profonda.
Siamo in apparenza molto più attenti, ma ai segnali di superficie, agli squilli e ai cinguettii, ai led luminosi che ci danno mille risposte, sempre raggiungibili da tutti e sempre un po’ timorosi di perdere la grande onda che ci tiene connessi al mondo, più virtuale che reale, che ci circonda.

Ma questo essere sempre connessi ci ha condotto a vivere in una sorta di continuo e sottile allarme. Il nostro cervello è costruito per ritmi ben più lenti. Allontanarlo da questa condizione naturale lo mette in uno stato di fatica, di minore stabilità.

Così rifletto e mi chiedo quanto l’attenzione abbia a che fare con la giornaliera conta dei morti, sempre più drammatica, sempre in rialzo, senza che il bollettino giornaliero delle 18 denunci la sospirata inversione di tendenza.

Ha molto a che fare. I quotidiani, le tv, i mille siti del mondo web sono ora un florilegio, meglio un bombardamento di cifre, dati, previsioni, ipotesi di mille esperti.

Che attirano la nostra attenzione, ma fatalmente solo quella superficiale, come dato puramente emotivo.

La sarabanda dei numeri rischia d’essere solo un contenitore entro il quale ci sta tutto e il suo contrario, così che il regale virus si è trasformato non già in un’inaudita pandemia, ma nell’archetipo del male.

Il contatore delle vittime serve, non c’è dubbio, a suscitare sacrosanta attenzione, giustificato allarme, a indurre comportamenti di assoluto rigore. Tutti a casa, un dovere.

Bene così. Tuttavia il rischio, oggi forse difficilmente evitabile, è di mettere al bando quel naturale processo della vita che sfocia nella morte. Che non cessa d’esistere anche ora, anche nei tempi del Covid.

È come se non già la morte da virus, ma ogni altra morte fosse stata sospesa e ogni tragico evento a esso ricondotto. Tra causa e concausa c’è la stessa differenza che passa tra attenzione e attenzione profonda.

Ciò non muta l’eccezionalità del momento, non cambia l’unicità storica di questo annus horribilis, ma ci aiuta a comprendere che, quando avremo sconfitto l’untore del pipistrello, dovremo fermarci, chiedere aiuto alla scienza per capire, distinguere, trarne lezione.

Appunto, attenzione profonda. Altrimenti le future vittime, per intenderci i morti d’ogni umano male, cadranno nell’oblio, mentre ancora in piazza si festeggia il ritorno alla vita.

 

23 marzo
Per vedere l’effetto che fa
Una giornata invernale, fredda, con un vento gelido tanto raro nelle nostre contrade. Che ti mette dentro una “gnagnera” difficile da superare. La consueta carrellata sulle notizie provvede ad alimentare il malumore.

Forse anch’io, quando stavo in redazione, ero in preda a quest’ansia, da effetto moltiplicatore. Siamo ben lontani dalla fine del corona-incubo e già si pubblicano dettagliate analisi della non meglio specificata “comunità scientifica”. È la scienza che parla, non si discute, mettetevi comodi e in silenzio: “Il Covid è solo l’inizio, altre pandemie precipiteranno sul pianeta”.

Si parla e si scrive a cateratta con effetto moltiplicatore.
Il presidente della Regione Lombardia impartisce lezioni quotidiane: il decreto del governo che chiude anche ogni attività non essenziale è riduttivo e messo in essere “senza il nostro consenso”. Ohibò, per fortuna, “i lombardi sanno cosa fare”. Lo segue, a una sola incollatura, il collega del Veneto, Zaia. Ma anche nelle altre regioni non si scherza, dal Nord al Sud. Le autonomie dei governatori, che non esistono quali figure previste dai nostri ordinamenti, creano forti dissonanze e ordine sparso.

Gli anziani malati? Non c’è dubbio: “Lasciati soli dallo Stato. Ecco perché tanti morti”. Lo Stato, la grande madre, la grande famiglia. Tutto vero. Ma e noi, figli e nipoti, comunità prossime, dove eravamo, dove siamo? Mistero.

Dai nonni ai genitori: “L’ansia cresce sul futuro dei figli” e naturalmente a scuola non se ne combina una giusta. Ministro e insegnanti tutti all’indice. Non meglio definiti genitori sono in rivolta(sic): “Date meno compiti e insegnate di più”. Chi, come, dove, quando, perché? La regoletta aurea del giornalismo non trova applicazione.

I numeri, le cifre che dominano il nostro imbrunire, così rigorose nel quotidiano notiziario della conta di morti e guariti delle 18, fornita dalla Protezione Civile, si fanno vaga opinione, un ballon d’essai, tanto per vedere l’effetto (moltiplicatore) che fa: “Mille soldati a Milano? Ne occorrono almeno 10mila!”. Non parliamo delle mascherine: mille e centomila si sprecano, così come quelle definite inservibili. Ne approfitta il desaparecido ministro degli esteri, con sorriso prestampato, a spiegarci che dai vari amici che abbiamo in questo mondo ne stanno arrivando a milioni.

All’estremo Sud, il tratto da Scilla e Cariddi, noto un tempo per ninfe e mostri e per le pericolose correnti marine, addomesticate ai giorni nostri dalla performance natatoria di Beppe Grillo, è pattugliato: “No pasaran”, assicurano da Messina.

Assedio è sostantivo di largo consumo: “Da Salvini a Renzi riparte l’assedio a Conte”; “Nell’Italia assediata la grande paura è il futuro dei figli”. Rieccoli i nostri pargoli.

Torna il malaffare: “La mafia del virus. Dalla droga alla sanità la pandemia aiuta l’economia criminale”.

Si sprecano i viaggi illegali delle citate mascherine e di ogni supporto sanitario.

I sindacati minacciano lo sciopero dopo la decisione del governo di sospendere gran parte delle attività non essenziali e a questo punto mi alzo dalla sedia, mi affaccio all’immagine di un pensoso Berlinguer e chiedo: “Spiegami, Enrico, perché non capisco”.

Il «New York Times» scrive che “le autorità italiane hanno sbagliato molti calcoli nelle fasi iniziali del contagio, quando le misure andavano prese rapidamente e attuate con assoluta chiarezza”.

“Altro che modello italiano” tuonano detrattori e commentatori nostrani. Se lo dice il NYT, la Bibbia mondiale del mio mestiere, c’è da crederci, soprattutto ora che il presidente ha finalmente cambiato rotta rispetto agli inizi della pandemia, quando minimizzava il rischio. Per il momento poco ascoltato, vista la folla sulle spiagge di Los Angeles, Malibu e Long Beach.

Bene, ma quali sono gli altri modelli?

Non si sa ancora quale sarà quello statunitense: non la Cina di Xi Jinping perché, si dice, delle misure cinesi “non conosciamo i danni collaterali”. Per ora, proprio accanto a quel monito, si scopre che gli Stati Uniti si avviano verso una probabile fase di Grande Depressione, accentuata da un sistema sanitario privato che rischia di strangolare la parte più povera del Paese, già afflitta da patologie di massa quali obesità e diabete.

Forse Boris Johnson con il teorema dell’immunità di gregge? E Macron che manda tutti al voto in Francia e poi chiude casa? O la Merkel che procede con diversi conteggi e tiene i numeri bassi? O, ancora, la Spagna con i pazienti stesi nei corridoi degli ospedali?

Insomma, grande è la confusione sotto il cielo, ma la situazione non è affatto eccellente e dei maestri privi di dubbi c’è da dubitare.
Ricco di esempi, per fortuna, anche il libro di chi è sottoposto per dovere a un lavoro massacrante e lo fa in silenzio e abnegazione. Doverosa cronaca, ma sarebbe preferibile chiamarli con il loro nome e cognome e la loro qualifica. Cittadini e non eroi.

Mi chiedo, in questo frangente senza precedenti, quando i lettori arriveranno all’effetto saturazione. Conosco l’obiezione: la notizia è, senza concetto. Un male privo di rimedio in siffatte circostanze. Tutto vero.

Ma la notizia è anche come la si presenta, in quale contesto, con quali modalità. Non è una corsa a perdifiato verso l’effetto choc. Che peraltro in una simile circostanza è non già l’eccezione, ma la norma. È la faticosa camminata verso una decente verità, non il cinismo di chi la spara più grossa. Anche se ci pare che il mondo stia affogando, che sia diventato una polveriera, non più tanto per passarci la fiamma della vita, ma per innescare quella della morte.

Piuttosto, quando questa buriana sarà alle nostre spalle, dovremo augurarci che le gazzette d’ogni angolo del pianeta si riempiano sempre più degli esempi, oggi per una volta in primo piano, di gente che vive, al di fuori di carriere e soldi, del proprio lavoro, delle proprie fatiche, del proprio ingegno.

Quel che tiene unito davvero un Paese è un altro bisogno: credere in qualcosa, lottare contro il cinismo e per il migliore dei mondi possibili alle condizioni date. E trovare nel rispetto delle regole un saldo e comune denominatore. Forse sta qui la vera utopia.

 

24 marzo
Faccia di gesso

Ancora sogni, stavolta di una dolcezza infinita. Se li ricordo in questo strano diario è perché credo riemergano dal mio subconscio non a caso.

Mi ritrovo così nell’aula della scuola elementare, la Edmondo De Amicis. C’è un bambino che non ha nessuna voglia di abbandonarsi al riposo del primo pomeriggio e se ne sta con le braccia conserte sul banco, il viso inutilmente affondato a cercare una breve notte che non può venire.

Il colletto rigido mi tormenta il mento, il fiocco azzurro pende laggiù, mezzo slacciato, sotto il grembiule. La fronte scivola lentamente, sull’estremo lembo; che la maestra Antonia non avverta il minimo rumore. Ecco: ora spio dal mio fortino all’ingiù.

Così il mondo va proprio a rovescio. Scarpe tutte uguali e tante calze bianche. Spunta una gamba, pare un gigante, troppo lunga per essere di uno o una di noi; è coperta da una spessa lana o cotone, che ne so? Avvito la testa in un lento e pigro giro. Attento al calamaio che spunta, se lo urto sono guai, grossi.

La furba gioia si fa subito angoscia; che avrò mai fatto davvero non capisco, ma sono certo che è davvero una gran colpa. Strizzo gli occhi nell’ultimo disperato tentativo di prender sonno. In realtà attendo la sentenza.

Su di me incombe la punizione, stavolta non c’è scampo. Stringo forte gli occhi mentre sulla mia testa si posa una mano. Sono rassegnato, è giunta la mia ora.

Un brivido percorre la schiena. Se paura è, viva la paura, è la carezza di un velluto d’amore che mi fa venire la pelle d’oca.

Sento la voce: che fai, non riesci a pigliar sonno? Ma non aspetta la mia risposta. Seguo quel passo claudicante che intravedo tra un mare di grembiuli neri.
Giro la testa verso la grande finestra, ora spalancata. Apro gli occhi piano piano, il sole inonda l’aula, sento la palla che rimbalza nel cortile.
Da dove sbuca questo gran regalo? Non ho dubbi, da lei, faccia di gesso, che sorride.

Mi rimangono, di sogni come questo, anche gli odori.

Gli odori della scuola, inconfondibile quello dell’inchiostro; il sapore dopo l’inevitabile passaggio sulla lingua spinto dai più audaci compagni di banco; il profumo della colla, dei fogli dei sussidiari, dei disegni a mano libera con la matita a punta tenera. Già allora ero un promettente disastro.

Ancora il sogno. Sono impegnato in corse sfrenate nel giardino verso i teneri arbusti, piantati nell’autunno per la festa degli alberi, finché non avverto il suono ritmico della campana.
No, non è la campanella del rientro a scuola, è una campana di circa 65 anni dopo, della chiesa di fronte a casa che, con il puntuale (le 7 e 45) ritmo delle singole note, mi ricorda: è l’o-ra-che-pia-la squilla-fedel-le-no-te-c’in-via-del-l’a-ve-del-ciel
E via ripetendo.

Nel gran silenzio, faccio spazio ai rintocchi spalancando la finestra della sala, quasi di fronte alla chiesa. Ma ora le porte sono chiuse.
Anche il grande sagrato, raduno serale e notturno di ragazzi e ragazze, è deserto.
Lo era anche ieri sera, dopo la mezzanotte e quasi (anzi, senza quasi) rimpiango quell’orda di giovani impegnati in notturni incontri di calcio che in realtà sono dispute all’insegna dell’urlo libero e senza confini.
Quante volte ho pensato di andare dal parroco e… mai fatto e ora che ci penso ancor meglio, mai lo farò.

Amo il silenzio, oggi più che mai per la banale quanto solida ragione che alla mia età anagrafica è rifugio e conforto. Ma il silenzio imposto di questi giorni, non frutto di ripetuti atti di libertà, come camminare in un sentiero di montagna e fermarsi su un piccolo avamposto deserto, altri non è che un rumore ostinato di sottofondo. Per un po’ pare di goderne, poi scopri che è solo un maledetto imbroglio.

 

25 marzo
Vittime e untori
Mi ero ripromesso di non cedere all’impulso di consultare, quale primo atto della giornata, i siti dei quotidiani.
Non c’è nulla di male, ma è come aprire di colpo le finestre in una giornata fredda, come questa, e ventosa. Troppa aria rischia di far male.

Ma la deformazione professionale è il padre dei miei vizi.

Nulla è cambiato, ovviamente, da mattina a sera, se non l’annuncio di una terrificante scossa di terremoto in Kamcatka, o come diavolo si scrive, nell’estremo oriente russo, con conseguente rischio tsunami.
Tre righe in coda, il coronavirus toglie fiato e spazio. In compenso dà fiato alle trombe della nostra vanità.

L’assessore alla sanità della regione Lombardia, Giulio Gallera, alla domanda su come viva la sua improvvisa notorietà, risponde che da un mese sta dentro al bunker della Regione dalle 8 a mezzanotte (le luci dei Palazzo Venezia sparsi in tutta Italia non si spengono mai, mai, ndr)…

“Se mi fermo un secondo a leggere i messaggi favorevoli o a pensarci, ok. Ma non ho metabolizzato l’aumento della popolarità, ci sarà poi il tempo per farlo”. La sfida al sindaco Sala? Lui c’è.
Nulla di male, in sé, a domanda risponde, ma un vago senso di nausea politica m’assale.
Forse sono io che sbaglio, meglio chiudere, come faccio ora, e pensare ad altro.

Pensare ad altro? Fosse facile.  La pandemia toglie il respiro a mente e cuore. In senso reale e figurato.
È un’osservazione in sé ovvia, ma c’è altro a certificare la sua unicità per le numerose generazioni, dagli otto agli ottanta, nate dopo il secondo conflitto mondiale o per pochissimi anni entro una guerra di cui conservano forse labilissime tracce.

Quali sono dunque gli elementi inediti di questo flagello?
Una conversazione del giorno prima con un caro amico psichiatra, conosciuto in Vidas anni fa e del quale ho grande stima, mi aiuta a dipanare la matassa: “Io butto lì, pensaci tu a fare ordine” è il suo classico intercalare in conversazioni a ruota libera.

Ebbene, dove sta l’inedito?
È che la morte è dentro di te, dentro di noi. Di ciascuno di noi, davvero nessuno escluso. Quanto meno la sua immanenza. Non è più solo un dato statistico che ci riguarda, ma non ci coinvolge in prima persona. Siamo nel contempo vittime e untori.  Altro ancora è la scala planetaria del male che non concede spazi di fuga, sia pure retorici. Sono due miliardi e mezzo le popolazioni direttamente coinvolte e all’appello manca il grande continente africano, nella speranza che calore e clima tolgano ossigeno al Covid.

Alla sua analisi, da me brutalmente sintetizzata, aggiungo un’osservazione empirica che fa da corollario.

Si dice sempre e tanto più vale in quest’occasione storica che la parola va data alla scienza. Deve guidarci nella spiegazione e nella ricerca dell’origine del fenomeno: parli chi sa e dica la verità e può aiutarci a trovare rimedi; gli altri tacciano.

Salvo poi scoprire, con un certo smarrimento, che la frase, ineccepibile entro le mura di un palazzo di giustizia, si poggia in questo caso su basi ancora fragili. Nel frangente non esiste verità senza scoperta, senza solide prove empiriche, dalle analisi di laboratorio alla sperimentazione.

In questo spazio di non detto, perché non saputo, si depositano tante voci controverse: quanti sono i contagiati veri? Quattro volte tanto, si tuona a destra; no, dieci volte tanto, si risponde a sinistra. Prima che la notte passi ci vorrà tempo e tante luci accese, queste sì benedette, nei laboratori di ogni dove.

Un corda pazza per concludere la giornata. Mentre chiudo queste note apprendo:

  • che anche il principe Carlo è positivo. Dio salvi il futuro re;
  • che i ricchi della Russia fanno a gara a comprare ventilatori polmonari da installare nelle loro dacie;
  • che Trump rovescia sul tavolo montagne di dollari. Tuttavia, dopo aver dato atto che sì, qualcosa è successo, avverte: “Non possiamo però tener chiuso così a lungo”.
  • Ah, a proposito degli ineffabili americani. Nulla è cambiato dal lontano 1897. Lo apprendo da una raccolta dei giornali di quell’anno che giace nel ripiano basso di una delle librerie, il meno agevole da raggiungere e che si perlustra solo quando il tempo abbonda. Sfogliando l’ingombrante tomo, leggo dell’ennesima impresa del Duca degli Abruzzi. L’esultante principe di Casa Savoia è ritratto mentre issa il tricolore sulla vetta del Sant’Elia, nell’Alaska, 5940 metri sul livello del mare. Aggiunge il cronista: “Una comitiva americana, che voleva rapirgli quest’onore, s’era messa in moto 15 giorni prima, ma non riuscì a fare la pericolosa ascensione. Forse gli americani, più pratici, si sono fermati a metà strada, per scavar le miniere d’oro che si sono adesso scoperte nell’Alaska. La febbre dell’oro è nella tradizione americana più dell’alpinismo”.
  • Accanto la pubblicità dei pattini da strada: “Il pattinaggio in istrada è elegante e aristocratico. S’impara presto; non vi è nessun pericolo; sulle strade ordinarie si fa tre volte il cammino a piedi. Cercansi agenti. Agenzia Generale The Anglo Italian Com. Segue indirizzo”.
    Centoventitré anni dopo, niente di nuovo da segnalare.

26 marzo
Tutti in fila per l’agnello
La ricordata positività dell’eterno principino Carlo, mio coetaneo, relegato nell’eremo di Scozia, conduce alla più ovvia delle considerazioni: il coronavirus è l’unica forma di comunismo realizzato in via planetaria. Non stupisce allora siano stati i cinesi i primi a esserne contaminati e i primi a uscirne.

Facezie a parte, scorre un’altra giornata grigia e soprattutto fredda. Le basse temperature stanno mettendo a rischio le gemmazioni dei giardini confinanti e le speranze che i primi tepori primaverili possano contribuire a combattere con più efficacia la pandemia.

Da diversi minuti osservo nell’assoluto silenzio la strada. Nessuno la percorre, è troppo tardi per la prima passeggiata dei cani e troppo presto per le altre (penso ancora sorridendo al sindaco siciliano che protesta con i concittadini: ma quante volte devono uscire ‘sti cani?).

Da più di due settimane la motoretta a noleggio volante (mi piace chiamarle così) è parcheggiata sul marciapiede di fronte, proprio in mezzo, e chissà quanto ci resterà; sotto le mie finestre, le auto stanno immobili da giorni e giorni nei loro stalli, una sorta di concessionaria o di parco d’auto usate a cielo aperto.

Anche i terrazzi lasciano intravvedere una variopinta raccolta che non sono solo piante e fiori. Mi colpisce l’apparente immobilità, come se ciò che osservo non facesse parte del vero e vivo quotidiano, ma fosse solo una tavola pittorica. Un’immobilità che dura fino a sera, fin quasi all’ora di cena, ora che i giorni s’allungano a grandi passi. Poi le luci, come mai ne avevamo osservate prima: guarda all’ultimo piano, allora ci abita qualcuno! Non è vero, ci ha sempre abitato qualcuno, ma ci consoliamo pensando siano nuovi arrivati.
Insomma, il giorno che assume i contorni della notte e la notte che inganna il giorno.

Questo paesaggio urbano non è forse la stessa cosa che scorre quotidianamente dinnanzi ai nostri occhi, ma che noi, ciechi, riusciamo a vedere solo ora che il tempo s’è fermato? Ci vuole una pandemia perché noi, comuni esseri dell’umana specie, si possa avere un lampo di luce sul lato in apparenza nascosto di noi e di ciò che ci circonda, ma che è lì, davanti a noi, e chiede solo di essere letto.

Ecco che cos’è la pittura. O la fotografia. O la scultura. Tempo fa i cari amici d’una vita ci hanno regalato un libro. S’intitola Il volto dell’Occidentee lo ha scritto uno storico dell’arte moderna e contemporanea, Flavio Caroli. È una galleria di venti capolavori che hanno fatto l’immagine della nostra civiltà. È a portata di mano, proprio accanto alla scrivania. No so perché, ma lo sfilo dalla sua comoda e logica posizione, accanto alla Piccola Guida della National Gallery.

A proposito di quanto appena rilevato della mia cecità di fronte al paesaggio urbano, mi colpisce La fila per l’agnello, un dipinto di Giacomo Balla del 1942. La pioggia è intensa sulla via, osservata dalla finestra d’un bel palazzo d’una borghese via centrale della città: sotto, radi e frettolosi passanti si difendono dalle intemperie; una donna e un uomo attraversano in sensi opposti e danno la sensazione che soffi un vento fastidioso, freddo; più in là, in fondo, all’incrocio, un crocchio di persone si riparano sotto ombrelli, così fitti a far da tenda. Tra loro due bimbi che s’intravedono per i colori chiari che fanno da contrasto al buio fitto creato da gonne, soprabiti e pantaloni. Si fa la coda per catturare, scacciando l’incubo della guerra, un attimo di felicità con l’abbacchio.

Del medesimo anno, 1942, molte pagine più in là trovo I nottambuli. (Nighthawks) di Edward Hopper. Siamo a New York, in Greenwich Avenue. Non occorre sbirciare, perché la grande vetrata non crea ostacolo alla vista entro un bar dove due uomini e una donna siedono silenziosi al bancone. Osserviamo senza fatica dalla vetrata trasparente. Le luci non mancano, anche se le vie sono deserte in quell’ora notturna. Solo il barman volge lo sguardo verso di loro e fa pensare a un accenno di dialogo non cercato. Palpitante e umano, osserva Caroli.

Quante cose si possono vedere se solo lo si desidera, se si aprono occhi, mente e cuore a ciò che ci circonda, non solo l’universalmente bello, ma a ciò che ci restituisce pienezza. Non importa quanto rilevante sia l’opera.

Entro un adorabile gioco delle parti, capita sovente che mia nipote mi prenda amabilmente in giro per il titolo di un libro da me scritto sull’avventura di Vidas che s’intitola Le api stanno sparendo dalle nostre anime. Un intreccio di sfottò che mi diverte.  Poi ho saputo che la scorza della sua rustica riservatezza è stata intaccata dall’ottimo giudizio sulla sua lettura di un’opera, non so quale, in storia dell’arte. Un giorno o l’altro, se capiterà, ne parleremo. Se lei vorrà.
Intanto le mie api svolazzano, ma le lascio fare attorno a me. Sanno di miele, sanno di buono. Sanno di Sofia e della sua tanto tormentata quanto meravigliosa giovinezza.

 

27 marzo
Dall’ultima alla prima
C’è un vecchio rito che pare fatto apposta per esorcizzare le paure, le crescenti inquietudini, mentre l’altalena dei contagi, su e giù, accentua le nostre ansie.  È la lettura dei quotidiani sfogliandoli a ritroso.  In apparenza è come entrare in condominio dalla porta di servizio, quella che incrocia la salita dalle cantine. Quelle buone mantengono la temperatura quasi inalterata con lo scorrere delle stagioni.
È un mezzo imbroglio, perché appena esci c’è troppo freddo o troppo caldo, ma hai tempo di predisporre il tuo corpo e il tuo umore (non parliamo di spirito) a ciò che verrà.

In questo cammino alla rovescia m’imbatto stamane in un paio di pagine della cronaca milanese di «Repubblica», illustrate da belle fotografie piene dei colori che illuminano le nostre tavole. “Siamo alla frutta” è il titolo che campeggia, circondato da una sinfonia di colori tra le vie di Milano. Un tale deserto da annullare le nostre perplessità abituali sulla merce, spesso troppo esposta ai gas di scarico.

Restano i verdi teneri delle verdure pronte all’insalata e quelli intensi degli ortaggi disposti alla cottura; i gialli e i rossi vividi dei peperoni; le sfumature dei carciofi che si sperdono nel violetto delle ultime foglie; gli inossidabili kiwi, oggetti contundenti che stanno nei nostri vassoi più d’un tempo di epidemia prima che diventino commestibili; le mele, meglio quelle piccole e un po’ mal sagomate che i giganti da oltre mezzo chilo l’una; le sorelle banane, d’un colore tra il verde e il giallo indefiniti che nel tempo si copriranno delle striature nere, mai diventando dolci come quelle piccole, mangiate con avidità nel profondo di Siria e Turchia tanti anni fa.

La lenta risalita, pagina dopo pagina, è come scorrere la processione dalla coda alla prima fila, su su sino al prete e ai maggiorenti in prima fila: nello sport la composta delusione di chi ha preparato mese dopo mese il salto o la corsa per il sogno d’una medaglia olimpica e ora vede svanire il traguardo agognato, magari sapendo che una prossima occasione non ci sarà;

anche la sgangherata rabbia dei ras del pallone, che si sta sgonfiando con velocità pari al gonfiamento dei debiti, pronti a entrare in campo, subito: quelli il virus se lo mangerebbero in insalata;

più su i cinema chiusi per ferie forzate, gli spettacoli dei teatri cancellati mentre  tv e Netflix di ogni contrada vivono una stagione d’oro;ancora più su le cifre stratosferiche necessarie a far ripartire la ruota del mondo che s’è inceppata; sempre più su le storie, accorate, di chi ce l’ha fatta, e sussurra parole gonfie di gratitudine entro tubi e mascherine, usando le parole eterne, quelle che magari ci saremmo stupidamente vergognati di pronunciare in altre circostanze: “Mamma non ti lascio”, “Tornerò per te  e lotterò”; di nuovo più su la vita dei nostri vicini dell’Europa e di quelli lontani, nelle Americhe e altrove per fare la più ovvia delle scoperte, quella che Totò avrebbe chiamato “A livella”: di fronte al pericolo siamo tutti nella stessa barca, Esposito Gennaro o’ netturbino e il nobile marchese signore di Belluno che si ribella a dividere con lui terra e tomba.
Diversi sono certo i timonieri. Ci consola pensare che il nostro, a dispetto del lungo naso, sembri non contare balle: s’arrabatta, certo sbaglia qualcosa, ma almeno non ride a ogni pié sospinto o fa la faccia truce di chi ne ha piene le palle di tante precauzioni, come certi biondi cotonati di qui e di là dell’Oceano Atlantico; poco sotto la vetta eccoci alle pagine, utili assai, di chi spiega, prova a interpretare dati contraddittori; si fanno preferire coloro che tentano di capire e di farsi capire, ma che non hanno in tasca verità assolute; inevitabile comunque, dopo tanti giorni, un effetto saturazione, ma diversamente non si può fare;

accanto a loro le voci di chi non spiega, ma racconta: medici, infermieri, che sarebbe meglio chiamare persone serie, piuttosto che eroi. Ecco, proviamo a mettere al bando il sostantivo eroi. Già detto? Lo ripeto, sino alla noia; infine eccoci lassù, sulla vetta delle prime pagine: non è che si goda chissà quale panorama: ”Una brutta Europa” non trova accordo su un’azione comune contro l’epidemia.

Ecco perché leggo i giornali dalla coda. Come tuffarsi quando il tempo è minaccioso e l’aria è gelida. Se proprio si deve fare, meglio cominciare mettendo una punta del piede: “Bagnati la pancia” raccomandano le mamme d’ogni tempo. Obbedisco.

Perciò ho iniziato la risalita tra la frutta delle vie di Milano. Mi aggrappo idealmente, con quanta forza ho in corpo, a questa cascata di colori. Se persino l’anarchica Italia riesce a zittire gli idioti nemici dei vaccini, a indurre un popolo riottoso a stare in casa e ad ascoltare i buoni consigli, vuol dire che ce la si può fare. Una speranza che per me è una scelta obbligata: come farei a spiegare a mia nipote Sofia che di colpo ho lasciato le api sole al loro destino?

 

28 marzo
Educazione fa rima con Costituzione
A proposito di giornali. Sulla mia scrivania giacciono ritagli di quotidiani e riviste da sistemare. Più opportuno sottolineare che sarebbero da sistemare. Secondo argomento, secondo logica.  Quand’anche ciò accadesse, succede in misura infima, i raccoglitori di tante riflessioni, dopo un lasso di tempo anche breve, trovano posto e riposo negli scaffali dello studio e, in tempi forse ancor più rapidi, perdono il loro valore di testimonianza, anche se divisi per argomento. Capita di chiedersi: perché? Dunque un esercizio inutile?
Sì, è la risposta secondo logica; no, secondo volontà. Il loro vero utilizzo è nell’atto stesso della raccolta, nel ritaglio, istante di semina di un pensiero letto che, in forza di quell’operazione, si dispone negli scaffali della memoria. Una frazione infima viene trattenuta rispetto all’imponente mole di materiale, ma ne vale comunque la pena.

Ciò non accade forse anche per i libri e per i post che s’incollano tra una pagina e l’altra? Sì, ma in minor misura perché in quel caso l’autore, l’argomento, il titolo, il grado d’interesse suscitato nell’atto della lettura, sono altrettante utili tracce. Esili, insignificanti, irrecuperabili il più delle volte, comunque scie d’un pensiero, d’una riflessione che in quell’istante determinato ci hanno dato qualcosa in più che si è depositato nei cassetti della nostra memoria e forse tornerà prezioso in altri momenti, senza che noi lo si sappia.

Tanto vagabondaggio per dar conto del ritrovamento in un’agenda dimenticata di un minuscolo foglio. È una breve lettera inviata a «Repubblica» all’inizio dell’estate di quattro anni fa. Il titolo è “tram deviato causa movida”. Il testo: “Sabato sui navigli milanesi un conducente ha annunciato il cambio di percorso di un tram a causa dei clienti del sabato sera che invadono le rotaie con le loro macchine, perché nessuno le rimuove?”. Sembrava un film, conclude la lettera. L’horrorvacui; meglio, l’horror plenidei nostri tempi.

Queste note sono state scritte nell’estate del 2015, ma potevano essere anche dell’estate scorsa. In questi giorni, sabato compreso, via Vigevano (è di quella via che si parla, parallela all’Alzaia del Naviglio Grande) è un breve rettilineo deserto che sfocia sul piazzale di Porta Genova, altrettanto deserto. Di tram ne passa uno ogni quarto d’ora. Pressoché vuoto.

Si stava meglio quando si stava peggio o si credeva di star peggio?

Anche se quest’infimo aneddoto può suscitare un’istintiva pulsione verso comportamenti giudicati negativi (e che tali restano), non credo ci possa essere spazio per un simile interrogativo.  Se spazio ci fosse, vorrebbe dire che volgiamo lo sguardo dietro le nostre spalle, neghiamo la speranza che è la condizione necessaria delle nostre azioni presenti e future e ci aiuta a resistere al mal di vivere di questi tempi. Un mal di vivere che da individuale si è fatto nome collettivo.

Io vivo, dunque spero. Così mi pare dicano e abbiano scritto grandi menti, prima e dopo il sommo Leopardi. Solo così siamo obbligati a cercare qualcosa che ancora non si conosce. Senza speranza la nostra vita è priva di senso, fa sì che i nostri occhi sappiano vedere oltre il ciglio di quella via un tempo caotica e ora deserta. È la premessa al nostro agire prossimo e futuro. Più futuro che prossimo. Quando questa tempesta sarà alle nostre spalle, ancora non sappiamo come, nessuno e niente sarà più come ora o torneremo alla vita e alle abitudini di sempre, ignari di nuovi pericoli e nuovi flagelli?

Sono in molti a sostenere che prevarrà l’inerzia del passato, puntando sulle straordinarie capacità di adattamento dell’essere umano. Certo è che da tempo non accadeva un cataclisma di queste proporzioni che ha coinvolto più della metà degli abitanti della terra.

Come milioni e milioni d’esseri umani, non ho risposta, pur vivendo in interminabili ore che ampio spazio lasciano alla riflessione. Come altri, mi sento vittima di un bombardamento numerico che induce “un’ansia sterile” come scriveva qualche giorno fa Paolo Rumiz, con notazione quanto mai pertinente. A dispetto di questa tremenda processione europea “in ordine sparso” (altra bella espressione di Rumiz), tra imprevidenza e arroganza, proprio in virtù della fiducia riposta nella speranza, mi auguro si possa recuperare il rispetto perduto per ciò che l’uomo era ed è. Se non altro per l’orrore dinnanzi a ciò che potrebbe diventare e che ci appare non appena cerchiamo di prevedere il futuro.

  1. Una coda doverosa a quest’altro giorno sospeso viene da un errore tecnico. Il Quirinale ha messo in rete il messaggio al Paese del presidente Mattarella (“Europa, muoviti prima che sia troppo tardi”) con i cosiddetti “fuori onda”. È bastato qualche minuto per sentirlo dire parole di ordinario disagio: “Non riesco a leggere; Giovanni (Giovanni Grasso, il suo portavoce, ndr) per piacere, scegli una posizione perché se ti muovi ti seguo e mi distraggo”. Pausa e poi si ode l’invito a sistemarsi i capelli e la risposta: “Eh Giovanni, non vado dal barbiere neanche io”.

Chiosa Luca Bottura su «Repubblica»: “Brilla un sotto testo in questo dialogo figlio dell’impaccio: ne usciremo accompagnati da quest’uomo forte e mite e dalla sua educazione. Che, forse non per caso, fa rima con Costituzione”.

 

29 marzo
Noi siamo i nostri ricordi
Il primo atto del giorno, com’è consuetudine ormai da tempo e non solo nell’era del coronavirus, è affacciarmi alla finestra. Da essere umano, quindi abitudinario per eccellenza e con capacità di adattamento all’ambiente, ho smesso di provare stupore perché non sento più il chiacchiericcio intorno alle due scuole elementari che circondano casa mia da entrambi i lati, le portiere che sbattono talvolta all’unisono, i clacson delle macchine che scaricano i pargoli agli ingressi; ho cessato di chiedermi quanti le usano per effettiva necessità e quanti con esse vivono in inutile e dannosa simbiosi e di sentire con perfida gioia una lite per un’uscita ostruita. Ora c’è silenzio, qualche raro scambio di ruvide cortesie tra cani che s’incrociano da marciapiedi opposti. Potessero, si chiederebbero com’è piovuta tanta manna dal cielo, perché non sono lasciati soli nemmeno per un istante da settimane, che ci fanno nonni, genitori e figli sempre in casa. Di sicuro, dopo la gran buriana, inventeremo qualche seduta terapeutica per i nostri quadrupedi, quando la vita riprenderà a scorrere come prima, al fine di adattarli alla rinnovata solitudine.

Facezie a parte, non per questo si fa meno acuta la nostalgia dei banali rituali, perché noi siamo i nostri ricordi, anche quelli minimi, un deposito di ricordi che non cessano di essere in attività nemmeno durante il nostro sonno, quando i sogni, con somma perfidia, mettono a soqquadro le nostre vite passate, le mescolano mettendo in scena personaggi, volti e storie senza più alcun rispetto per le cadenze del tempo. Piccole ma perfide manipolazioni che agitano il nostro riposo, talvolta ci costringono a improvvisi risvegli, pieni d’affanno.

In 1984, Orwell narra di un potere politico che falsifica date, personaggi, ricostruisce una memoria perfetta, ma bugiarda. Tutto si consuma in un eterno presente. Cancellate l’illusione, l’incertezza, resta solo la memoria fasulla, strumento di dominio del disegno politico d’onnipotenza. Senza ricorrere alle straordinarie trame letterarie dello scrittore britannico, cerchiamo più prosaicamente di chiederci quale sarà l’effetto sulle nostre vite “dopo”, che memoria avremo della peste del 2020.

Già porre un “dopo” e per giunta virgolettato rispetto a un “prima” sottolinea l’importanza e la portata rivoluzionaria del tempo della pandemia. Non manca la schiera dei pessimisti, che si definiscono realisti tout court: torneremo ai nostri antichi vizi, come se nulla fosse accaduto, alle pratiche deteriori, alla politica di piccolo cabotaggio. Non è da escludere. Ma ci sono anche coloro che sostengono e comunque si augurano si possano aprire prospettive inaspettate.
Tra essi anche una penna non certo incline a vaghe illusioni, ma abituata a un solido ancoraggio alla realtà e a una dose massiccia di pessimismo, qual è quella di Galli della Loggia.
Che disserta sulla “fortuna” capitata al presidente Conte: anche se lui, aggiunge, sarebbe stato il primo a preferire che ciò non accadesse: “È l’implacabile andamento delle cose che vale a rendere sempre meno sopportabile la chiacchiera vuota, la mancanza di serietà e di concretezza che si sente in troppi discorsi, a far apparire d’improvviso, in tutta la loro mediocrità, tanti politici di lungo corso”.

“Non si tratta di mandare in soffitta il Parlamento – sottolinea – ma di garantire la necessaria unicità e rapidità del comando”. L’assoluto rispetto delle regole della democrazia, delle opinioni divergenti, non ha nulla a che vedere con l’immobilismo, il rimpallo delle decisioni, l’intrico dei regolamenti attuativi, lo spezzatino delle competenze tra mille autorità, i tempi biblici necessari a scrivere regolamenti attuativi di una legge, perché “i tempi non sono un optional ma l’efficacia stessa di una decisione”. “Molto dovrà cambiare nel modo d’essere della nostra vita pubblica – conclude -. In questi drammatici momenti ne abbiamo una prova quotidiana e non potrà non influire sulla nostra politica e sulle regole del nostro Stato”.

Tornando alla parola chiave odierna di queste chiacchiere quotidiane, i ricordi, mi vien da pensare comunque che la memoria è un atto creativo, mai la semplice duplicazione di ciò che è avvenuto e nemmeno mai la restituzione tout court di quanto abbiamo realmente vissuto.

Una considerazione che mi fa essere più pessimista, ed è tutto dire, del pure austero Galli della Loggia.

I ricordi, chiamiamoli pure la storia, sono in primo luogo un messaggio per i viventi. Un messaggio umano anche quando ci racconta avvenimenti naturali, come fa il coronavirus. Messaggio tanto più sentito quanto più è trasmesso da chi ha compiuto dentro di sé lo sforzo tremendo di estrarre una lettura possibile.

I ricordi sono dunque anche un grande strumento per far crescere la coscienza. Resta il fatto che troppo spesso tali ricordi, ovvero la storia, ci consegnano dei non sensi, da risanare, ma da non dimenticare. Siamo in eterno movimento con i nostri ricordi appresso, pronti ad accogliere nuove domande. Ma non è male: guai se vivessimo in un mondo di soli contemporanei, come qualcuno pretende.

 

30 marzo
Lezione di piano
Ieri sera, in chiusura del lungo e necessariamente monotematico telegiornale della prima rete Rai, è apparso un medico, impegnato in un’esecuzione pianistica che, alle mie orecchie di profano, sapeva di buono. Il giovane professionista è uno dei tanti ad avere dato la sua disponibilità in questi momenti di assoluta emergenza. Alla fine della lunga e stressante giornata, ha trovato un pianoforte, chissà come finito in una sala non lontano dalle corsie e non ha esitato a suonare, circondato dai colleghi.

In altre circostanze mi sarei chiesto come e perché quello strumento è finito lì, avrei pensato a restituire alla scena la sua carica reale oltre che simbolica. Ora no, mi sono unito anch’io idealmente, senza se e senza ma, ai camici bianchi che gli stavano appresso e ho applaudito.

Nel faticoso cammino entro la pandemia, sono tornati i volti dei medici e con essi di tutte le figure medicali che stanno accanto a loro. E quando scrivo volti, intendo letteralmente le loro facce e non quelle figure evanescenti che troppo spesso scivolano tra le corsie o quei profili neutri ai quali noi giornalisti chiediamo in gran fretta un estratto del loro sapere scientifico.
Tanti ne conosco, in virtù della mia attività di volontario o perché legati da amicizie. Io non so giudicare in piena coscienza se siano bravi o meno professionalmente (come potrei giudicarli? Che significa bravi? Quali competenze ho?), ma sono testimone della passione con la quale esercitano, della tenacia con la quale hanno raggiunto i primi risultati, spesso oltre la cosiddetta età matura. Dovremmo chiederci perché, in tante e troppe professioni chiave, in Italia la giovinezza è ritenuta motivo di freno. Per quanto tempo ancora un medico alla soglia dei quarant’anni lo chiameremo “dottorino”? Il fatto è che ancor oggi, nell’immaginario collettivo, trasciniamo una visione distorta di questa professione, forse in virtù della forte asimmetria tra il portatore di sapere e noi, che si esercita inevitabilmente sui nostri corpi.

E se la smettessimo di pensare che il medico abbia virtù quasi sovrannaturali o che, all’opposto, sia un essere che antepone i suoi interessi contingenti al benessere del paziente?

Forse questa drammatica contingenza ci potrebbe aiutare a ritrovare un rapporto equilibrato. Condanniamo i medici fraudolenti, ma se pretendiamo che non facciano più errori, non avremo più medici. Ora che dopo tempo immemore osserviamo i loro volti da vicino, conosciamo le fatiche e i rischi di una così impervia professione, non dimentichiamo che nella maggioranza dei casi non sono il dottor Terzilli, alias Alberto Sordi. Per altro eccellente e integerrimo sanitario, prima di cedere alle lusinghe di fama e denaro. Penso agli ospedalieri con guadagni non eccelsi, impegnati in un carico elevato di guardie notturne e sottoposti a uno stress non indifferente entro strutture complesse. Non solo oggi, nell’ora di un’emergenza che non ha uguali.

Nella mia frequentazione in qualità di volontario in Vidas, ho altresì imparato che, alle responsabilità di natura civile e penale, per altro comuni a molte professioni, il medico ne aggiunge altre e più ampie, di natura psicologica e umana, perciò di somma importanza.

Il professor Eugenio Borgna, psichiatra che ho il piacere di conoscere e tengo in gran stima, sostiene che il medico è responsabile dei silenzi; dell’attenzione e disattenzione con cui saluta o non saluta un paziente; dei modi con i quali consulta o non consulta davanti a lui una cartella clinica; dei gesti; del detto e del non detto, dimenticando che gli occhi e le orecchie dei pazienti sono spalancati in attesa di una parola o di un gesto che li aiuti ad avere fiducia.

Ecco perché, in quest’epoca buia di pandemia, un giovane medico che lascia scorrere le sue mani sul pianoforte, con passione pari al suo impegno quotidiano, ci consegna un messaggio insieme di responsabilità e speranza.  Se la responsabilità è la consapevolezza del nostro agire rispetto all’altro, la speranza è la condizione prima per conseguire qualcosa che ancora non si conosce. Dobbiamo rispettarla, farla crescere, non spezzarla anche quando è fragile.

Mentre sto per chiudere questa nota giornaliera, mi accorgo d’aver parlato di medici, per ovvie ragioni contingenti, ma che identiche parole si potrebbero utilmente spendere per altre professioni.

Speranza e responsabilità non sono virtù che ci vengono assegnate alla nascita, come un cuore che batte o il sangue che circola. Implicano un sottinteso: accetto la sfida, mi assumo la responsabilità dei miei atti e delle mie speranze. Una responsabilità che va oltre il rispetto delle mie competenze, non è soltanto giuridica, ma morale. È il sacrosanto rispetto delle regole, dio sa quanto importante in una società in cui si evade il diritto, ma insieme e soprattutto la coscienza dell’altro e dei suoi bisogni, senza che ci sia una sanzione che l’impone.

 

31 marzo
Il mio implacabile subito
Il tempo. Il tempo perché ricominci la vita. Per ritrovare gli alleati perduti. Per ritrovare il senso ora mutato delle parole. Per sapere quando finirà davvero. Quota zero a metà maggio? No, dopo perché non si escludono fenomeni di ritorno; macché, prima, sennò è il tracollo. Prima, perché fallisco e mi trovo con le rate dei mutui di tre negozi e ho venti euro in tasca. Prima, perché c’è brace sotto la cenere e sento la rabbia covare tra gli scaffali dei supermercati. Dopo, perché un errore stavolta sarebbe fatale. Prima, perché ricominci la vita. Dopo, perché per prima è la vita. Prima, perché la democrazia non si indebolisca e perché se si rompe il patto sociale si fa strada la domanda di un potere semplificato. L’Ungheria è il primo, concreto esempio. Prima e dopo; dopo e prima. Non sto vaneggiando in questa mattinata con un cielo grigio piombo che immalinconisce. Il valzer del tempo appena proposto del prima e del dopo è solo un minuscolo estratto dei titoli di un paio di quotidiani di oggi.  Evitare che, fare in modo, ecco da dove ripartire, ecco ciò che serve, assurdo non vedere che: è un tripudio di consigli, una giaculatoria di raccomandazioni.

Tutte legittime, preziose, in queste ore drammatiche e i giornali svolgono la loro funzione di conoscenza e stimolo nella democrazia. Così dev’essere, anche se in una distratta nota a piede di pagina, il Comitato di redazione del «Corriere» ricorda agli azionisti di via Solferino che di questi tempi (plurale) non è elegante distribuirsi dividendi. Ciò ovviamente vale per molte società prodighe di lezioni, oltre che per noi singoli cittadini: a ciascuno il suo.

Uso quest’annotazione non per gusto polemico, ma per sottolineare che la cadenza del tempo non è la sola variabile in campo in quest’emergenza estrema, ma s’accompagna al valore delle scelte, mai neutre. Se l’osservazione può sembrare ovvietà, provo a pensare al mio quotidiano, quello sin qui vissuto, anche e soprattutto in questo tempo sospeso.

Faccio l’esempio più banale. Io scelgo di restare in casa per il coronavirus. In realtà mi adeguo alla legge, rispondo alle mie paure, decido per la mia sicurezza. Ma con ciò mi sono sottratto alle abitudini non solo fisiche, ma a quelle del sentimento e della ragione che stanno in me. Prendo una certa distanza dal quotidiano e mi pongo dunque uno scopo, che non è custodito nella mia esperienza. Lo scopo è un po’ più in là, si è trasformato in differenza dalla mia vita quotidiana.

Da un mese questa differenza è in me, agisce in me e mi ha trasformato in primo attore di questa scelta, anche se l’impulso mi è venuto dall’esterno. L’imperativo “Io resto a casa”, che accomuna milioni di italiani, è entrato nella mia vita, ha dato alla mia vita una tensione, uno scopo che non è occasionale, ma ripetuto. Ciò non ha fatto di me e di milioni d’italiani degli “eroi”, ma certo mi ha, ci ha conferito un’identità che si chiama fedeltà a una scelta collettiva. È la fedeltà di gruppo perché la battaglia contro il coronavirus è la scelta di un progetto individuale che si fa collettivo, condiviso da milioni di esseri umani.

È il mio essere cittadino. Dovrebbe.

Ecco perché e come si ritorna per questa contorta via al prima e al dopo nel tempo del coronavirus. La scelta da individuale non solo si è fatta di gruppo, ma non è mai neutra. Infatti “il prima e il dopo” presuppongono un universo ideale ed etico molto complesso entro il quale ciascuno deve operare scelte che coinvolgono altri. In fondo lo è sempre stato, ma avevamo smesso d’averne coscienza. Data la mia età, per puro egoismo sarebbe meglio che prestassi più cura all’ora piuttosto che al prima e al dopo. In passato ho nutrito vigorosa passione per chi lavorava e operava, anche in politica, per il bene delle generazioni future. Tutto era in moto per la palingenesi del domani, anche se il miglior tempo della politica lo ritrovai nell’impegno quotidiano e nell’attività rivolta al quartiere, tempo troppo breve.
Ora mi riservo la fede per chi fa il bene subito, non lo rinvia alle generazioni future, all’umanità che verrà, al domani. Il mio subito, qui e ora, si è fatto implacabile, è la giornata con le numerose occasioni che mi dà, sono le ore e i luoghi che condivido con le persone care, con gli amici, con chi, qui e ora, cura chi soffre. È un paesaggio, un dialogo, un volto o uno sgangherato scritto come questo: una medicina qb, ovvero quanto basta per certificare non il di là da venire, ma adesso, la mia esistenza in vita.

 

 

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