LA PAROLA

Ebete

Uno sguardo vacuo, labbra spalancate come lo spioncino di una casella postale, magari un filo di voce che si spegne, dopo aver fallito nel rispondere ad una domanda qualsiasi, in un muggito fioco; questi sono forse i “segnali” che ci vengono in mente quando sentiamo la parola ebete.

Ebete deriva dal verbo intransitivo latino hebere, dove indica una costruzione nominale che esprime un comportamento e un atteggiamento ottusi.

La parola che oggi va di moda: il leader, fino all’altro giorno sulla cresta dell’onda, è un “ebetino”; un lumpenproletariat devastato da supposte maieutiche scorrette del terzo millennio è il “webete”; è facile dare dell’ebete, molto divertente, perché è una parola che suona bene.

Siamo tutti un po’ ebeti al giorno d’oggi, dobbiamo ammetterlo; e siamo circondati da altri ebeti, e con buona pace degli amanti dei ragazzi, molti di questi sono giovinastri.

il principino della giovanile di partito, che ripete i suoi slogan e sorseggia allegro il suo succo di frutta spacciato per cocktail, non ha un contegno troppo brillante, soprattutto dopo che ha ripetuto lo stesso slogan per la milionesima volta(e poi magari una battuta da seconda superiore nel privato, confermando di essere essenzialmente un ometto troppo cresciuto); il consulente informatico troppo fiducioso nelle proprie macchine assume alle volte un’espressione facciale plastica, come se si aspettasse che anche ogni interlocutore provi lo stesso panglossiano entusiasmo nei confronti dei codici e dei calcolatori; il giovane imprenditore che ha appena fondato una ditta senza sede e senza portafoglio, nobilitandola con un inglesismo, non sembra riuscire a spiegarti troppo bene che diamine di prodotto voglia venderti, facendo quindi un po’ la  figura del ragazzino tanto bravo a ripetere la pappa all’interrogazione, ma sostanzialmente incapace, se costretto a ragionamenti laterali; non parliamo poi dei “giovani liberali”, capaci di nascondersi dietro le sigle più inconcludenti, i cui discorsi, sebbene cantilenanti anziché borbottanti, non hanno un livello di complessità troppo diverso da quello del populista al bar accanto; e men che meno dei “giovani intellettuali”, che hanno imparato benissimo l’Abbagnano-Fornero a memoria e tutte le sigle dei cartoni animati.

Quando pensiamo a un ebete, siamo stati addestrati a figurarci un personaggio simile a uno dei tanti ingenuotti post-industriali e low-middle class, che affollano i telefilm americani, a cui non si può voler veramente male; non è forse lo stesso spauracchio che ci viene in mente quando sentiamo la parola “populista”?

Al giorno d’oggi, nella nostra gioventù cosmopolita e istruita male, l’ebete più diffuso è una pallida caricatura, con lo sguardo vitreo e il sorriso poco accennato, del picchiatello di Jerry Lewis; personcine che reputano stimoli positivi i movimenti come La “Republique en Marche” o le scuole di federalismo europeo, o che reputano che possano permettersi di criticare un colosso della letteratura di 100 anni prima per via dello “stile lento” o del periodare massiccio, quando non hanno le risorse spirituali sufficienti neanche a figurarne l’ombra, tantomeno contemplarne la grandezza; in un romanzo di Dickens questi sarebbero state delle macchiette inconcludenti, piatte e patetiche, o al massimo gli aiutanti ottusi di qualche antagonista; anche Flaubert e i due Mann li avrebbero stigmatizzati come sottoprodotti delle piccinerie di una classe media europea che ormai ha esaurito fatalmente la spinta vitale.

A un certo punto, magicamente, si aprirà una botola e fuoriuscirà un Tom Bosley redivivo, incornato da un’aura sovrannaturale e dai cori dei cherubini; con espressione paterna e serafica, comincerà a risvegliare tutti questi ebeti con sonori ceffoni.

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