LA PAROLA

Elucubrazione

Ogni parola ha una sua storia. A meno che non si tratti di nomi di cose specifiche, infatti, la primordiale individuazione di un’idea, così come di un concetto, può diventare universale solo attraverso la concretizzazione con un termine appropriato in modo che possa essere poi divulgato. Tra l’astrazione ed il termine c’è quindi un passaggio intermedio che risiede nell’immagine che si vuole trasmettere per poterla poi comunicare sotto forma di pensiero. Un pensiero, tra l’altro, che può essere anche piuttosto complesso, elaborato e passibile di evoluzioni nel tempo.

La parola elucubrazione, ad esempio, deriva dal latino elucubrare che letteralmente significava “comporre alla luce di una lucerna”. L’immagine concreta è questa per rendere poi l’idea di un lavoro intellettuale attento, riflessivo, solitario, impegnato, che abbia bisogno di una luce ma che non trascuri le ombre, che viene svolto di notte e non alla luce del sole, perché è nella notte che i pensieri più profondi prendono forma e si rincorrono tra loro, si mescolano, si confondono, ma a volte poi si allontanano perdendo ogni riferimento, dimenticando da dove sono nati, e per cosa hanno almeno un po’ vissuto nella loro dimensione astratta.

Una elucubrazione, quindi, è un’opera del pensiero, sviluppata con meticolosa dedizione, a volte anche eccessiva, che però nonostante lo sforzo compiuto, ed il tempo perso, rimane fine a sé stessa, non producendo nulla sul piano concreto della realizzazione. Per questo aspetto, il termine viene molto spesso utilizzato con ironia proprio ad evidenziare il paradosso tra lo sforzo e l’inutilità (“è solo una dotta elucubrazione”, oppure “è solo un’elucubrazione mentale”).

Non c’è mai stata però reale discriminazione, quando si è parlato di elucubrazione, perché ciascun pensiero, per quanto contorto e controverso e per quanto improduttivo, è pur sempre la rappresentazione di una dimensione umana che vale la pena scoprire e quindi esercitare.

Elucubrare ha in sé il potere ed il piacere di nuove scoperte interiori che nascono per caso dalla combinazione di sensazioni, riflessioni, esperienze intellettive, ma anche dalla osservazione della realtà e della sua influenza sul nostro umore ed eventualmente sulle nostre scelte.

Il termine, quindi, arcaico e desueto nel corso dei secoli, è tornato in uso nel linguaggio moderno, anche giovanile, proprio per valorizzare la tendenza ad abbandonarsi ai propri pensieri, a rielaborarli con particolare impegno, a soffermarcisi senza limitarne l’estensione e la loro espansione verso l’infinito ed eventualmente poi a manifestarli, ma senza pretese particolari né finalità espressive, semplicemente come promemoria di pensieri sparsi, intimi, personali, come ricostruzioni di frammenti emotivi, che trovano una ragione d’essere nella loro indefinibilità.

Tutto questo ha inoltre coinciso con il progressivo utilizzo delle nuove modalità di comunicazione sempre più alla portata di tutti, e sempre più indirizzate verso la condivisione e la diffusione a tutti. In questa ottica il termine elucubrazione è molto presente nei vari “social” ma soprattutto nei blog personali. Basta ad esempio digitare su Google le parole “blog” ed “elucubrazioni” per scoprire un infinito mondo di riflessioni in libertà, in ognuna delle quali, la dedizione sicuramente esagerata rispetto al pensiero centrale, rende, non per caso, la connotazione fortemente ironica.

L’oggetto delle moderne elucubrazioni è smisuratamente vasto e vario e spazia dall’attenta analisi di antichi pensieri filosofici al problema insopportabile delle doppie punte, dalle considerazioni approfondite sugli attuali avvenimenti di cronaca, agli scoop delle notizie di gossip, dalle indignazioni di tipo politico a quelle che riguardano la sconfitta della propria squadra del cuore.

Ciò dimostra che il termine elucubrazione, così foneticamente arcaico, e se vogliamo anche un po’ austero nel suo significato originario, ha fatto e continua a fare tendenza proprio nell’era della leggerezza e della dissacrazione ad ogni costo, quasi come un bisogno sociale di sentirsi ancora parte di quella cultura che dava un nome alle cose e che le rispettava per quelle che erano.

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