DIALOGARE IN PACE IDEE VISIONI

Il linguaggio perduto della politica

La banalizzazione delle istituzioni, il linguaggio popolare e aggressivo, l'ignoranza della storia. Eccola la versione politica del "parla come magni", figlio di una nuova sotto-cultura che sembra vincere su tutto e che va contro tutto!

Un reportage di Gad Lerner su “La Repubblica”, lodato sia un genere giornalistico sempre più raro, ci riporta al tema del linguaggio perduto della politica. «La Cgil serve a non farci fregare, Salvini ci ha convinti perché è l’unico che parla come noi, degli altri non si capisce niente». È l’estrema sintesi della prima tappa di un viaggio nel mondo del lavoro tra il nord e il sud della penisola. Destra e sinistra unite e palla non più al centro.

Rovato, Coccaglio, Adro, Chiari, sono paesi contigui di una zona industriale della Bassa Bresciana. Muratori, carpentieri e metalmeccanici a braccetto con chi cura le pregiate vigne delle colline di Franciacorta. Ancor oggi, alla faccia della crisi, un crocevia di occasioni di lavoro, manna dal cielo anche nel profondo Nord non più fecondo come in passato. Qui la Lega raccoglie percentuali che alle europee hanno superato la soglia del 50%, ma anche il sindacato di Landini e compagni non se la passa male. Unità di intenti e il diavolo si trova in compagnia non più dell’acqua santa, come accadeva talvolta in un lontano passato, ma di ciò che resta nell’ampolla che fu di Bossi.

Il cronista che quasi mezzo secolo fa lavorava per conto del quotidiano “L’Unità”, rammenta le incursioni in questi luoghi in occasione delle tornate elettorali. «Abbiamo confinato la Dc nel ghetto del 50 per cento» celiavano i dirigenti locali del Pci, impegnati allora in un’ impari battaglia politica contro il gigante democristiano che concedeva ben pochi spazi. Non c’erano solo pie donne e uomini devoti a garantire il voto: c’erano gli operai che in fabbrica votavano Fim e Fiom, artefici di un comune sentire che rendeva meno evidenti, sino ad annullarle, le differenze e le contraddizioni.

Che cosa è dunque mutato da quel tempo da farmi apparire nefasta ciò che allora mi pareva una contaminazione benefica, l’unità nella differenza? È l’estrema banalizzazione della politica, è l’eloquio aggressivo e volgare che la fa da padrone, è produrre con le parole, come ha scritto di recente il sociologo Giuseppe De Rita sul “Corriere”, il maggior impatto possibile senza preoccuparsi di ciò che accade. Sono le espressioni quali fuori dai denti o a muso duro che mi fanno accapponare la pelle.

La sensazione è che tutto ciò accada perché si rinuncia dall’origine alla conquista del sapere, alla fatica dell’apprendere. Tu devi studiare perché non devi parlare e scrivere come noi, ripetevano un tempo ai figli genitori meno fortunati e con loro partiti e sindacati, che in maggioranza consideravano lo studio la strada maestra di un comune progresso. Oggi quell’appello corale è venuto meno e mi chiedo se una simile riflessione sia così anacronistica. Tanto più se accanto a quei figli oggi se ne contano mille altri che vengono da terre lontane, portando linguaggi e culture che richiedono l’accoglienza che possono dare solo conoscenza, cultura e voglia di sapere.

Se è vero che la preparazione e lo studio non sono le sole condizioni per avere buoni risultati, è altresì indiscutibile che le luci della storia italiana si sono accese quando la democrazia è stata eretta, mattone dopo mattone, su fondamenta fatte di lavoro, studio e sacrificio.

Non è un caso che il documento più prezioso che l’Italia possegga sia la nostra carta costituzionale, scritta con pensieri alti, chiari ed esemplari nella loro immediatezza. Quella carta sì è una che “parla come noi” e non ci frega mai. Se almeno provassimo ad applicarla, anche solo un poco, giorno dopo giorno.