«No! Mi ha killato». Ho sentito dal vivo questa frase qualche giorno fa, urlata da mio figlio di sette anni mentre giocava con una famosa consolle. Il suo personaggio, infatti, era stato ucciso, ma non parlando, per fortuna, di un omicidio reale aveva volutamente usato quella che per lui è l’espressione adatta a indicare la fine di una delle vite virtuali di cui dispone. E in effetti il termine killare, scritto con la kappa, nel rispetto del verbo inglese to kill (uccidere) è un’espressione tipica del mondo dei giochi di ruolo e virtuali.
Come testimonia anche l’Accademia della Crusca, che di recente ha pubblicato sul proprio sito un articolo sulla ricerca condotta da Lucia Francalanci proprio sul gergo dei giochi, i giocatori fanno ricorso a un vero e proprio slang, una sorta di codice linguistico, condiviso e compreso da una certa categoria di persone. Questo gergo spesso attinge dalla lingua inglese, prende a prestito dei termini e li adatta all’italiano.
Il neologismo killare, infatti, viene coniugato come qualsiasi altro verbo della prima declinazione ed esiste persino il sostantivo da questo derivante: killaggio, ovvero l’uccisione.
A onor del vero, killare viene usato anche in informatica con il significato di interrompere un processo o un programma ed è frequente, infatti, trovarlo nei blog online dedicati alla materia.
Può darsi che, come sostiene mio figlio, pronunciare la parola killare sia meno duro, definitivo e disturbante di utilizzare il verbo “uccidere” o “ammazzare”. Eppure, se si è consapevoli che la vita del protagonista di un videogame sia fittizia e non reale, che male c’è a usare un banale «No! Mi ha ucciso»?